blog americalatina

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"Hay muchas maneras de contar esta historia, como muchas son las que existen para relatar el más intrascendente episodio de la vida de cualquiera de nosotros".

Thursday, March 29, 2007

Computer in cambio di pistole

Computer in cambio di armi, educazione in cambio di violenza e prevaricazione. L’iniziativa è in corso a Tepito, uno dei quartieri più controversi della capitale messicana. Nei giorni scorsi il quartiere era diventato oggetto di cronaca per una serie di espropri condotti in maniera repentina e al limite della legalità da parte della polizia in un tentativo -a dire delle autorità- di combattere il crimine organizzato. Tutta l’operazione è valsa la critica della Commissione per i diritti umani di Città del Messico, che ha messo in dubbio lo stesso piano –voluto da qualche politico in odore di speculazione edilizia- che vuole espropriare case e terreni di coloro che si sono resi colpevoli di qualche reato.
La diffidenza regna padrona. Alla fine del primo giorno dello scambio, le autorità hanno ricevuto ventinove pistole -misera cifra-, in gran parte consegnate da donne. A cambio di un’arma di grosso calibro hanno avuto un computer; alimenti o soldi quando ad essere consegnate sono state armi di piccolo calibro.
Tepito è solo il primo quartiere ad essere interessato da questo esperimento. Nei prossimi giorni altri quindici rioni saranno oggetto della stessa iniziativa che, certamente, da sola non risolve certo il disagio di chi ci vive. Un computer o una borsa della spesa non è certo la soluzione quando a mancare sono le strutture sociali, le scuole e la presenza tangibile dello Stato. Uno Stato cieco, che si fa vivo solo quando c’è da reprimere e da bastonare e poi regalare, just in case, computer che nel migliore dei casi in un paio di giorni saranno già sul bancone di qualche casa di pegni. Trovata commerciale, quindi? Perchè, guarda caso, i computer vengono con Microsoft già installato, dono della società di Bill Gates.
Desmadre en Tepito:
http://www.youtube.com/watch?v=Ag1IhvFwbCg

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Tuesday, March 27, 2007

Bolivia: la nazionalizzazione invisibile

Che cosa sta succedendo alla nazionalizzazione degli idrocarburi in Bolivia? Ritardi ed errori stanno creando dei veri e propri casi. In dieci mesi l’ente statale dei petroli ha cambiato quattro presidenti, tutti per irregolarità ed una manifesta incapacità nel rendere effettivo il decreto sulla nazionalizzazione. Morales continua a difendere le misure, ma ha riconosciuto che “mettere in atto le grandi trasformazioni ha un costo”. Un costo politico, oltre i quattro presidenti anche un valido ministro, Andrés Soliz e tre viceministri sono caduti ed un costo di immagine, già che l’opinione pubblica favorevole al presidente si chiede come mai i processi di trasformazione si stiano rivelando così lunghi.
I negoziati con le dodici compagnie petrolifere che operano in Bolivia si sono conclusi ad ottobre, ma i contratti non sono stati ancora applicati. Inesperienza ed inefficacia, uniti ai mali di sempre, clientelismo e corruzione, minano il governo di Evo Morales. Al margine delle nazionalizzazioni, infatti, sono stati rivelati vari casi di nepotismo e malversazione. Il rinascimento indigeno si trova a fare i conti con le tentazioni del potere e proprio qui si gioca la sfida della credibilità di tutto il movimento di Morales. Le cattive abitudini sono il nemico peggiore, perchè radicato nella cultura e perchè non guarda in faccia nessun colore politico o ideologia.
Ma è soprattutto sulla convenienza delle nazionalizzazioni che qualcosa non ha funzionato. Alla linea dura voluta da Soliz con l’espropriazione delle infrastrutture e un forte tributo da pagare alle casse dello Stato, si era poi passati ad un atteggiamento più accomodante verso le grandi compagnie, Petrobras fra tutte. Soliz era stato messo da parte proprio perchè diventato improvvisamente scomodo.
Che cosa si è firmato, però? A cinque mesi dagli accordi, si può cominciare a pensare male e cioè che le condizioni poste dai ministri di Morales lascino in realtà delle scappatoie alle multinazionali. Stato e compagnie private già non sarebbero in opposizione, ma soci nell’affare del petrolio. Forse, i presidenti dell’ente statale si sono accorti di questo e di dare la notizia ai boliviani proprio non se la sentono. Meglio farsi da parte e lasciare ad altri l'ingrato compito.

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Saturday, March 24, 2007

Il summit dei popoli indigeni

I popoli e le nazioni indigene d’America si troveranno al terzo vertice continentale a partire da lunedì 26 marzo in Guatemala. Territorio, risorse naturali, autonomia, proprietà: tanti i temi in discussione per un appuntamento a cui parteciperanno delegazioni delle popolazioni autoctone dal Canada alla Patagonia. Il luogo prescelto per l’incontro è l’area sacra Iximché, nei pressi di Tecpán, la stessa visitata da Bush nei giorni scorsi. Per questa ragione prima dell’inizio del summit, alcuni sacerdoti maya compiranno i riti di “pulizia spirituale” per eliminare gli spiriti del male lasciati dal presidente Usa.
Non ci sarà Rigoberta Menchú, che parteciperà negli stessi giorni alla riunione di premi Nobel negli Stati Uniti, decisione che gli è valsa ancora una volta le critiche dei suoi oppositori. Ci saranno però Evo Morales, Eduardo Galeano e Adolfo Pérez Esquivel (premio Nobel anche lui, eppure presente). Morales ha già fatto sapere che con la sua presenza intende appoggiare la candidatura della Menchú alle prossime presidenziali guatemalteche.
Il summit si chiuderà il 30 marzo con una manifestazione nel centro di Ciudad de Guatemala.
La Convergencia Nacional Maya organizza l’evento:
http://www.waqib-kej.org/
Il link sul vertice: http://www.cumbrecontinentalindigena.org/

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Thursday, March 22, 2007

Ecuador: è golpe, ma non si dice

Rafael Correa è contento perchè, dice, la crisi politica in Ecuador è stata superata. Mandati a casa i 55 deputati oppositori e sostituiti con ventidue rimpiazzi, il Congresso ha ripreso le sue funzioni e da ieri sta lavorando soprattutto per fare passare la riforma sulla Costituzione.
Dobbiamo chiamarlo o no un colpo di Stato? Nessuno lo fa, ma quello che sta succedendo in Ecuador ha tutte le affinità con un golpe tecnico. Mentre nelle strade le fazioni si scontravano, arrivando anche a malmenare politici ed addetti ai lavori, i ventidue sostituti sono stati portati nella sede del Congresso in autobus protetti dalla polizia. Quasi una coercizione, dettata dalla necessità di girare pagina ed andare avanti verso l’autoritarismo di sinistra.
Tutto normale, quindi, ma normale nei parametri dell’Ecuador, dove nell’ultimo decennio si è cambiato presidente come cambiarsi la camicia. Correa, dicevamo in un recente post, ha cominciato male e rischia di procedere peggio. Usa le maniere dure e non nasconde di non privilegiare l’ordinamento democratico. Appena eletto, lo aveva detto in un’intervista a diversi mezzi di comunicazione: “Il mio governo potrà funzionare solo con pieni poteri”. Con un Congresso dominato dall’opposizione, l’unica via da seguire era quella di affrontare a muso duro gli avversari: un golpe, quindi, come viene dimostrato dagli avvenimenti di questi ultimi giorni.
Chi sta a sinistra, tace, per beneficio del dubbio ed anche perchè ritorna l’antico quesito: si può giustificare il cambiamento con queste misure antidemocratiche? Di fatto, da oggi in Ecuador non esiste più lo Stato di diritto nato dalle recenti elezioni, ma viene imposto un governo di amici ed opportunisti. Correa lo sa benissimo, ma lo giustifica con il più consumato discorso populista, già che dice di aver fatto in questa maniera gli interessi del popolo.
Popolo che alla fine sarà quello che deciderà. Negli ultimi anni i sollevamenti popolari sono stati quelli che hanno provocato le fughe dei vari presidenti. Vedremo se a Correa toccherà la stessa sorte o se, come dice lui, la rivoluzione è solo all’inizio:
http://www.rafaelcorrea.com/

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Tuesday, March 20, 2007

Pizzo e Chiquita

Il caso della Chiquita, che si è dichiarata colpevole di aver pagato un pizzo ai paramilitari colombiani, non è poi così tanto semplice. La dirigenza ha ammesso le proprie colpe perchè, in fondo, non gli rimaneva altra via d’uscita e la multa, comminata da un tribunale statunitense, per una multinazionale come questa, è risultata roba da poco conto: 25 milioni di dollari.
Dal 1997 al 2004 la Chiquita ha pagato almeno 1 milione e 700 mila dollari per avvalersi della protezione delle Auc, il gruppo paramilitare di destra. I dirigenti della Chiquita affermano che agendo in questa maniera hanno garantito per diversi anni la tranquillità dei lavoratori e delle loro famiglie. In cosa consisteva, però, questa protezione?
Secondo Sintrainagro, il sindacato dei lavoratori del settore, gli omicidi di operai e sindacalisti non sono mai cessati, neppure durante il periodo che la Chiquita pagava il pizzo. Semmai, il pagamento alle Auc prevedeva, oltre alla protezione delle installazioni, anche l’eliminazione fisica di quei sindacalisti che protestavano troppo.
Secondo il Sintrainagro, dal 1994 ad oggi solo nella regione dell’Urabá, dove sorgevano le installazioni della Chiquita nonchè zona di conflitto, sono stati uccisi più di seicento affiliati e simpatizzanti del sindacato. La mancanza dello Stato ha trasformato l’Urabá in una terra di nessuno, dove la popolazione civile è stata in ostaggio delle Auc e delle Farc. La Chiquita, accettando il patto con le Auc, di fatto approvava la legge del gruppo paramilitare con le sue prevaricazioni e le sue esecuzioni.
I lavoratori della Chiquita che hanno perso familiari o sono stati coinvolti in fatti di sangue, stanno ora valutando di denunciare la multinazionale per la sua partecipazione agli atti delittivi. La decisione del tribunale Usa è ritenuta troppo blanda e, nello specifico, non rappresenta nessuna punizione per un’azienda che è stata complice del sistema delittivo e terrorista delle Auc. L’intenzione è quella di portare il processo lontano da un compiacente tribunale Usa e cioè in Colombia, dove sono stati compiuti i misfatti, la sede più adeguata per un dibattimento.
L’azienda, a scanso di equivoci, ha comunque venduto tutto nel 2004 a una firma colombiana.

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Friday, March 16, 2007

Inquisizione vs. Teologia della Liberazione

Ratzinger bacchetta a destra e a sinistra e, non contento dell’ortodossia dimostrata con la Sacramentum Caritatis (ma dov’è la carità, poi...) è andato all’attacco, ancora una volta, della teologia della Liberazione. Oggetto del suo monito sono due libri scritti da Jon Sobrino, spagnolo che da anni vive e lavora nel Salvador: “Jesucristo liberador” –del 1991- e “La fe en Jesucristo” –del 1998-. Entrambi, secondo la Congregazione della Fede (il nome attuale dell’Inquisizione, presieduta a lungo proprio da Ratzinger) possono indurre il fedele ad un’errata idea di Gesú. Insomma, è il Vaticano che decide su Gesù, per cui ne viene proibita la discussione intorno al pensiero e alle opere.
La notizia turba, non solo per l’arroganza e la censura operata nei confronti di chi pensa e lavora per la circolazione del pensiero critico, ma perchè è preludio di un attacco che la Chiesa Cattolica porta nel seno della teologia della Liberazione ed i suoi rappresentanti. Le brevi pubblicate dai giornali italiani non fanno assolutamente il punto della situazione. Non spiegano, per esempio, che la Congregazione della fede sta facendo pressioni perchè Sobrino ripudi i suoi scritti, dimostrando così obbedienza assoluta al papa e alla sua decisione e non dicono che quella di Ratzinger è una mossa per ridurre all’impotenza gente che, come Boff e Sobrino, da anni lavorano per una chiesa che agisce dal basso. Insomma, l’Inquisizione esiste ancora, eccome.
Sobrino, che da sempre ha dovuto fare i conti con la censura di Roma, non è persona da farsi spaventare ed ha risposto picche all’ingiunzione. “Molti teologi sono stati perseguitati senza misericordia dalla Congregazione della fede” ha detto il gesuita.
Accettare la notificazione sarebbe avallare il modo di agire della Congregazione, che non aiuta la causa di Gesù e della chiesa dei poveri”.
A Sobrino, ora, come prima misura è stato proibito l’insegnamento.
Qui, un’intervista al gesuita:
http://www.proconcil.org/document/Entrevista%20Jon%20Sobrino%201.htm
In quest’altro link, invece, la risposta data da Sobrino alla Congregazione della Fede:
http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=ES&cod=26726

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Wednesday, March 14, 2007

Un muro anche tra Brasile e Paraguay

La soluzione è il muro. I prossimi a costruirlo saranno i brasiliani, che non sanno più che fare per limitare il contrabbando della triplice frontiera dell’Iguazú. I cattivi di turno sono i paraguayani, che saranno così castigati con questo accorgimento vecchio quanto il mondo. Dove non può la tecnologia del secondo millennio potrà, secondo le autorità brasiliane, un muretto di due metri e mezzo di altezza e lungo poco più di un chilometro. La preoccupazione è infatti quella di non fare passare televisori, mutandine ed occhialini dal Paraguay al Brasile. Poca roba, sembrerebbe, anche se l’anno passato il valore della merce sequestrata è stato di 77 milioni di dollari. Un muro, quindi, che verrà edificato soprattutto in nome del fisco e che, per fortuna, non interessa nè il contrabbando di persone nè la tragedia della migrazione.
Resta il fatto che, ancora una volta, a mancanza di spirito di inizativa e di volontà di dialogo, si debba fare ricorso ad un odioso muro, mezzo dissuasivo, ma anche e soprattutto che divide e separa.
Foz de Iguazú e Ciudad del Este si preparano quindi all’evento: il muro sorgerà sotto il ponte che unisce le due città, chiamato –scherzo del destino- Ponte dell’Amicizia.

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Tuesday, March 13, 2007

Bush operaio

Solo per propaganda, però. In questa foto Bush ed il presidente guatemalteco, Oscar Berger, caricano casse di lattuga pronte per l’invio dal Guatemala agli Stati Uniti. Per attirare simpatie non si sa più che inventare. Comunque, fate attenzione alla cassa: ci sono solo tre lattughe, giusto per la foto.

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Sunday, March 11, 2007

L'amaro viaggio di Bush

Sta raccogliendo più critiche che lodi la visita latinoamericana di George Bush. In Brasile, la prima tappa, si sono fatte molte parole e tante promesse, attorno soprattutto all’uso dell’etanolo come energia alternativa per il futuro al petrolio. Bush confida che Lula possa trasformarsi in un suo alleato, soprattutto per quanto riguarda la pressione che può esercitare su Chávez e per questo cerca di prenderlo per la gola con la promessa di succulenti affari in comune. È tutto da verificare però se il presidente tornitore cadrà nella tentazione. Bush è pur sempre il grande ignorante che esclamò “How big it is!” quando Lula gli mostrò il Brasile sull’atlante e questo ha colpito nel profondo l’orgoglio nazionalista dei brasiliani. Stesso discorso per Tabaré Vázquez, socialista all’acqua di rose, a cui gli Usa hanno fatto ricorso per trovare punti d’intesa con una sinistra meno battagliera. Anche in Uruguay, i consiglieri di Bush hanno fallito perchè Vázquez sarà anche stato criticato dai suoi, ma ha fatto bene la parte del padrone di casa: cortese, ha ricevuto l’ospite, gli ha offerto il banchetto ma poi l’ha mandato per la sua strada.
Un po’ ovunque i lavoratori e contadini, a cui ha fatto ricorso Bush per invitarli ad un’improbabile amicizia con gli Usa, hanno preferito restare dall’altra parte della barricata a gridargli del terrorista. Lecito, diciamo noi, perchè le parole proferite dal presidente Usa sulla povertà suonano più ad un’offesa, che ad un invito.
Dall’avvento di Bush, la popolarità degli Usa in America Latina è in costante declino e non solamente nei circoli di sinistra. La guerra all’Iraq non piace a nessuno e l’inganno con cui le truppe sono state inviate in Medio Oriente è palese per tutti. L’opinione pubblica, quella non condizionata da schemi di partito o ideologici –e che rimane la più forte presenza in tutto il continente- accusa Bush di avere fatto del mondo un posto ogni giorno meno sicuro, dove sono state limitate le libertà individuali a favore dei privilegi delle grandi compagnie.
I giornali italiani hanno parlato di riconquista dell’America Latina, ma in realtà questo viaggio è stato un tentativo di salvare il salvabile. La corazzata Usa da tempo va a picco in America Latina e Bush è venuto a tirare i salvagente. Dovrà tornarsene a casa con le pive nel sacco e rimuginare a lungo per trovare qualche politica più effettiva che le solite vagonate di dollari. Il vento è davvero cambiato e se la Casa Bianca vuole davvero recuperare il terreno perduto, dovrà cominciare a trattare i popoli latinoamericani con ciò che si meritano: rispetto ed uguaglianza.

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Friday, March 09, 2007

L'opposizione ecuadoriana va all'Aventino

Si potrebbe parlare di un colpo di Stato tecnico. Il presidente del Tribunale elettorale dell’Ecuador, Jorge Acosta, ha infatti destituito dalle loro funzioni cinquantasette dei cento deputati eletti nelle recenti elezioni. Dietro la decisione c’è naturalmente il presidente Correa che in un mese e mezzo si è reso conto di non essere in grado di governare un Congresso nel quale non ha la maggioranza e che rischiava di boicottare il referendum sulla Costituente da tenersi in aprile.
I 57 destituiti, tutti dell’opposizione, non possono entrare nel palazzo del Congresso, che è presidiato dalla polizia. L’ordine è quello di vietare l’ingresso ai deputati dimessi, misura che rischia di portare l’Ecuador al caos o a qualcosa di molto simile a una dittatura. Il Congresso, infatti, senza i cinquantasette non può svolgere le sue funzioni e Correa potrebbe dichiarare di voler governare per decreto.
Come risposta, la destra minaccia di creare un parlamento alterno, mentre gli incidenti si susseguono tra i partitari dei vari bandi. Se Correa doveva essere il nuovo, l’uso di questi metodi ci riporta indietro nel tempo. Siamo onesti: calpestare i diritti fondamentali di una democrazia, non porta lontano. Circa quindici anni fa, Fujimori in Perù fece lo stesso ed i risultati si sono visti. Correa, chiamando alla rottura degli schemi tradizionali del fare politica, non sta facendo altro che riproporre invece i vecchi fantasmi con cui il suo nemico, la destra, ha governato per decadi durante il secolo scorso.
Stiamo a vedere, ora, che succede.

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Thursday, March 08, 2007

I bambini rubati del Salvador

Ci sono Paesi che per piccoli ed insignificanti vengono dimenticati dai più. Le loro tragedie, però, sono grandi e rischiano di scomparire e cadere nell’oblio per il poco peso che dà loro l’opinione pubblica mondiale.
Il Salvador, tormentato dalla guerra civile negli anni Ottanta, è uno di questi. La società salvadoregna vive oggi sulla propria pelle una pace che è stata solo a metà e che ha insegnato alle generazioni figlie di quel conflitto la violenza e la prevaricazione. E ci sono altri drammi che si consumano in silenzio, come quello dei bambini che, rubati durante quella guerra, vennero poi dati in adozione a famiglie straniere. Purtroppo, com’era prassi in America Latina, a trasformare la tragedia in un affare ed un’arma politica era lo Stato. I bambini rubati, infatti, erano i figli dei guerriglieri, che venivano sottratti dagli ufficiali dell’esercito.
Da tempo si è riunita nel Salvador un’associazione che sta cercando di fare reincontrare figli e genitori separati dal conflitto. Voluta da un gesuita spagnolo, padre Jon Cortina, scomparso due anni fa, Pro-búsqueda si è data il compito di riavvicinare circa 700 famiglie che si sono viste sottrarre i figli da parte di coppie in cerca, venti-venticinque anni fa, di un’adozione facile. Finora sono riusciti a fare incontrare circa trecento famiglie; ne mancano ancora tante per questo continuano a chiedere la collaborazione di chi, negli Stati Uniti ed in Europa, possa dare delle informazioni sui casi che rimangono da risolvere. Nella pagina dell’associazione, la spiegazione di cos’è stato il fenomeno delle “sparizioni forzate” dei bambini del Salvador:
http://probusqueda.org/index.php?module=htmlpages&func=display&pid=21

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Wednesday, March 07, 2007

Buon compleanno, Gabo

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”. Non è così che iniziano i grandi libri?
Gabriel García Marquez ha compiuto ottanta anni, ma sembra che pochi in Italia se ne siano accorti. Forse perchè defilato in questi ultimi tempi, Gabo dovrà fare i conti con il destino degli eroi del nostro tempo, relegati in secondo piano perchè soffocati da Grandi Fratelli, risse di Champions League, sterili brevi di politica e quanta altra porcheria.
Più attento il mondo ispanico, ovviamente. Tra le varie celebrazioni, i colpi di cannone sparati a Cartagena, il carnevale con cui si è svegliata la sua natia Aracataca e la lettura tenutasi a Madrid di “Cien años de soledad”.
Gabo è proprio a Cartagena, dove l’attuale edizione del festival di cine lo ha eletto a protagonista assoluto. Qui, infatti, sono proiettati per l’occasione i dieci film che sono stati tratti dai suoi romanzi (amante del grande schermo, García Marquez ha studiato cinematografia al Centro sperimentale di Roma). Un rapporto tutto particolare quello tra letteratura e cinema, che El Universal, quotidiano messicano, ha cercato di spiegare in un articolo apparso oggi:
http://www.eluniversal.com.mx/cultura/51757.html
In un’epoca che ci ha tolto mano a mano la capacità di sognare, teniamoci stretti chi invece ci ha insegnato ad amare la buona lettura che libera le emozioni. “Cien años de soledad” è come quelle canzoni che rimangono impresse a distinguere un tempo indimenticabile della nostra vita. Scommetto che tutti voi ricordate quando e come lo avete letto: io ero a Londra, era il 1981 e, possibilmente, non c’è stata estate migliore nella mia vita.
Buon compleanno, Gabo.

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Tuesday, March 06, 2007

Bush cerca amici

George Bush si è improvvisamente ricordato dell’America Latina e giovedì inizierà un lungo viaggio di una settimana che lo porterà in Brasile, Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. Caduto il progetto di un’alleanza strategica nel nome del neoliberismo ed abbandonata la regione per l’avventura in Medio Oriente, Washington cerca ora come raccogliere i cocci. La proposta con cui si muoverà sarà quella di stringere alleanze bilaterali con i paesi che ancora gli sono amici e con cui può sperare di instaurare accordi duraturi.
In particolare, Bush insisterà sul libero commercio, sulla validità del Plan Colombia e della riforma migratoria. Si tratta, insomma, di una ricetta rifritta, che non lascia intravedere nessuna novità in quanto all’atteggiamento degli Stati Uniti verso l’America Latina. Cieco e sordo, Bush va avanti per una strada che gli è costata in questi anni l’alleanza di pedine importanti nello scacchiere continentale. L’agenda Usa è obsoleta e non risponde alle esigenze attuali. Segue una propria strada, preoccupata nella sostanza a mantenere una posizione privilegiata e mai in situazione di equità con i partner e che, soprattutto, non tiene in conto dei cambiamenti politici e strutturali della società latinoamericana.
Alla disperata ricerca di amici, Bush è ritornato alle antiche abitudini della Casa Bianca. Ha infatti promesso milionate in aiuti per l’educazione, la casa e la salute, in un goffo tentativo di riacquistare simpatie: “il mio messaggio per i contadini ed i lavoratori dell’America Latina è: avete un amico negli Stati Uniti che si preoccupa per voi”.Questo è riuscito a dire durante uno dei suoi ultimi discorsi. Abbastanza cinico? Sufficientemente sarcastico?
Chávez, intanto, sarà a Buenos Aires a parlare di fronte a quarantamila piqueteros proprio mentre Bush visiterà l’Uruguay: un’altra prova di fuoco per i due fronti opposti.

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Sunday, March 04, 2007

Il Guatemala nel caos

Vi avevo lasciato qualche giorno fa con lo scandalo dei deputati salvadoregni uccisi in Guatemala. Subito dopo, un altro colpo di scena, degno di un filmaccio allo stile di Steven Seagal: i quattro poliziotti, ritenuti gli autori materiali dell’attentato, sono stati a sua volta eliminati da un commando entrato nel carcere di massima sicurezza del Boquerón dove erano rinchiusi. Il cadavere di un quinto poliziotto che avrebbe partecipato alla strage dei deputati è stato trovato bruciato, mentre un sesto si è consegnato alle autorità.
Insomma, una tristissima escalation che la dice lunga sulla qualità delle tanto decantate democrazie centroamericane. Narcotraffico, corruzione, crimine organizzato sono tutti infiltrati ai massimi livelli dello stato. Durante il mio viaggio di questa settimana ho parlato con uno dei risparmiatori che avevano denunciato nei mesi scorsi le manovre che hanno portato al fallimento del Banco del Comercio, uno dei più importanti del Guatemala. Da mesi vive nascondendosi perchè, dopo la denuncia avvenuta pubblicamente su un canale nazionale guatemalteco, è dovuto scappare per le minacce di morte ricevute.
Il Guatemala è una terra di nessuno. Il Banco del Comercio e il Bancafé sono falliti proprio per la presenza del crimine organizzato e del narcotraffico, innalzato ai massimi livelli grazie alla connivenza con il mondo politico. Più di un milione di persone hanno perso tutti i risparmi senza che lo Stato possa riconoscere loro un risarcimento. Negli ultimi nove anni, infatti, sono state ben sette le entità bancarie fallite, che sono costate all’erario più di mille milioni di dollari spesi inutilmente nel vano tentativo di salvare il salvabile. Ora, dice il presidente Berger, nel caso del Banco de Comercio e del Bancafé lo Stato non solo non pagherà un quetzal (la moneta locale), ma metterà in carcere i risparmiatori che si organizzino in proteste di piazza. Finora, questa misura è costata la vita a undici persone, tutti risparmiatori che si sono tolti la vita.
In una società estremamente chiusa come quella guatemalteca imprenditori e politici sono come il gatto che si morde la coda. Il mondo politico ha permesso e accettato che la situazione finanziaria degenerasse, perchè comunque ne ha tratto un beneficio diretto ottenendo prestiti immediati ed esagerati per amici e per finanziare propri affari. Non c’è da stupirsi, quindi, che proprio qui si ammazzino i deputati di un paese straniero, che la polizia sia implicata con il narcotraffico, che i banchieri usino i fondi pubblici per costruirsi ville da sogno, che le maras terrorizzino la gente, che la notte i commandos della morte facciano piazza pulita dei bambini di strada. Non c'è da stupirsi quindi se tutto questo concorrerà perchè, alle prossime elezioni, a vincere sarà il movimento indigeno.

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