blog americalatina

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"Hay muchas maneras de contar esta historia, como muchas son las que existen para relatar el más intrascendente episodio de la vida de cualquiera de nosotros".

Sunday, December 31, 2006

Buon anno/Feliz año

Buon anno a tutti i lettori e gli amici che seguono questo blog. L’augurio è che il 2007 ci porterà il migliore dei mondi: non sarà possibile, ovviamente, ma almeno a parole è bello pensarlo. Buon 2007.

Saturday, December 30, 2006

Guatemala: la pace dimenticata

Dieci anni fa il Guatemala festeggiava un evento storico: il raggiungimento degli accordi di pace tra guerriglia e Stato. Il saldo di quella guerra era stato uno dei più pesanti in America Latina: 36 anni di conflitto, 150.000 morti accertati, 40-50.000 desaparecidos, l’etnia maya quasi sterminata dal genocidio. E poi, un’eredità pesantissima, fatta di una memoria storica che lo Stato avrebbe voluto cancellare e che solo la volontà della Chiesa cattolica e di alcuni movimenti laici ha potuto mantenere intatta. Monsignor Gerardi, che più aveva voluto che non si perdesse il significato della Storia, nell’aprile 1998 pagò con la vita il suo gesto, a dimostrazione di come certi mali della società guatemalteca non muoiano. La recente richiesta d’estradizione da parte della Spagna di alcuni dei colpevoli dei misfatti più efferati nella storia recente dell’umanità (Ríos Montt primo fra tutti) e la difficoltà con la quale versa il procedimento ci fa intendere quanto poco sia servito quell’accordo di pace.
La società guatemalteca rimane tra le più violente dell’America Latina, eredità dei trentasei anni di guerra. I fucili e gli Ak 47 di quel conflitto sono passati direttamente dalle mani dei guerriglieri a quelle delle bande organizzate, delle pandillas, dei delinquenti comuni. La violenza aumenta (più di 6000 omicidi quest’anno), il tasso di analfabetismo non è mutato, la povertà è ormai alla soglia del 70% della popolazione, bianchi ed indigeni non trovano tratti di unione. Chi guarda a quella guerra che ha lasciato una stela di morte e distruzione non trova giustizia, perchè gli accordi –come nel Salvador- hanno cancellato ogni possibilità di processare i colpevoli dei massacri. Non è un caso che Ríos Montt sia richiesto in Spagna: deve rispondere infatti dell’uccisione di cittadini spagnoli e non delle migliaia di guatemaltechi che le sue PAC –i gruppi paramilitari- mandarono a morire.
Le cause che generarono quella guerra –il cui inizio rimonta ormai a quasi mezzo secolo fa- sono ancora vigenti e, se ci è concesso, oggi sono peggiorate. Se il Guatemala vorrà salvarsi dalla morsa dovrà infine trovare una maniera per restituire la dignità a tutti coloro che hanno sofferto e soffrono l’emarginazione, la povertà, la miseria ed il disprezzo da parte di quella porzione –minima- della popolazione guatemalteca che si crede ancora oggi padrona assoluta del Paese.
I testi degli accordi di pace:
http://www.congreso.gob.gt/gt/acuerdos_de_paz.asp

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Friday, December 29, 2006

La lenta giustizia del Salvador

El Salvador è uno di quei paesi dove la giustizia non fa il suo corso. Il trattato di pace di Chapultepec, che pose fine alla guerra tra l’esercito regolare e il Frente Farabundo Martí, di fatto lasciò impuniti i crimini che si erano consumati durante il conflitto.
Moltissimi di quei fatti sono quasi sconosciuti, complice una memoria storica cancellata dalla logica dei vincitori e, in un certo modo, anche da quella degli sconfitti, a cui l’impunità faceva comodo in ugual maniera.
Parliamo di questo tema perchè nei prossimi giorni verranno tumulati i resti di 41 vittime di uno dei massacri di quella guerra. La storia è presto detta: tra il 21 ed il 30 ottobre 1981 l’esercito salvadoregno scatenò la sua ferocia nei confronti della popolazione civile nella zona di La Quesera, nella provincia di Usulután. I soldati bruciarono case, violentarono le donne, uccisero gli uomini ed i bambini e lasciarono dietro di loro distruzione e desolazione. Del massacro, che lasciò un saldo di almeno 500 morti, non si indicarono mai i responsabili.
A riaprire il caso è stato Tutela Legal, un’organizzazione umanitaria della Chiesa cattolica, che ora chiede giustizia: il massacro della Quesera –com’è conosciuto- “è un crimine di guerra, del quale si è macchiato l’Esercito del Salvador attaccando indiscriminatamente la popolazione civile, provocando lo sterminio di 500 persone”.
Tutela Legal chiede di aprire l’inchiesta perchè, trattandosi di un crimine di guerra, non rientra nell’amnistia prevista dagli accordi di Chapultepec.
Se la magistratura accetterà il caso si tratterebbe di una decisione senza precedenti che aprirebbe, anche per El Salvador, un rinnovato rispetto per i diritti umani delle migliaia di civili che patirono in prima persona le torture della guerra.

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Wednesday, December 27, 2006

Paraguay: un vescovo per presidente

Fernando Lugo è destinato a diventare un personaggio. Paraguayano, 55 anni, di cui ventinove passati indossando l’abito da religioso, Lugo è stato per lungo tempo vescovo di San Pedro. Il suo incarico vescovile non lo ha trattenuto però dal dare vita a Resistencia Ciudadana, che raccoglie un centinaio di organizzazioni sociali e politiche. In maggioranza critica verso la politica di governo, Resistencia Ciudadana è diventata il referente più autorevole dell’opposizione, tanto che ora punta direttamente alle presidenziali del 2008.
Il candidato non può essere che uno, ossia Fernando Lugo: dopo aver chiesto più volte dispensa al Vaticano per poter continuare con l’attività politica, il vescovo di fronte all’ennesimo rifiuto ha deciso di abbandonare la Chiesa cattolica e di dedicarsi completamente al suo nuovo ruolo.
Lugo non ha mai avuto peli sulla lingua ed ha sempre appoggiato i settori popolari.
Il modello di Stato e le istituzioni statali” ha detto in una recente intervista alla BBC “sono state incapaci negli ultimi cinquanta anni di dare risposte ai reclami sociali e soprattutto di applicare modelli di sviluppo socioeconomico nel paese”.
Il Partito Colorado, che riunisce l’oligarchia liberale del Paraguay, è al potere ininterrottamente dal 1947, prima con Strossner e poi con una serie di presidenti che sono passati alla cronaca più per gli scandali che per aver fatto qualcosa di buono. Lugo, con questo suo passaggio dalla vita clericale a quella laica, si propone appunto l’abbattimento di questo potere. Una sua presidenza porterebbe anche il Paraguay, roccaforte della destra sudamericana, a guardare verso sinistra: primo esperimento di cattocomunismo al potere?
Un’intervista di Lugo:
http://latino.msn.com/noticias/articles/ArticlePage.aspx?cp-documentid=1737672

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Sunday, December 24, 2006

La Bolivia apre alla foglia di coca

Evo Morales vuole aumentare fino a ventimila gli ettari di terreno destinati alla coltivazione della foglia di coca. La proposta ha creato la solita protesta da parte degli Stati Uniti che, attraverso il loro ambasciatore Philip Goldberg, prima hanno tagliato il 25% degli aiuti per la lotta al narcotraffico (che equivale a otto milioni di dollari) e quindi hanno chiesto uno studio sul destino che si vuole dare alla futura produzione.
Attualmente la Bolivia ha 12.000 ettari coltivati e il sostanziale aumento risponde alle richieste dei coltivatori del Chapare, trentamila persone con le rispettive famiglie che aspettavano da tempo l’apertura del mercato. Una sorta di liberalizzazione della coltivazione che, sebbene risponda agli insegnamenti del mercato liberista, non piace a Washington. Secondo gli Usa la Bolivia, per il suo mercato interno –per fini medicinali e tradizionali- non ha bisogno di più di settemila ettari, per cui l’eccedente andrebbe ad alimentare il mercato della produzione di cocaina.
Morales risponde difendendo il suo piano: rispetto per il consumo tradizionale della foglia di coca e trasformazione delle coltivazioni clandestine in piantagioni sotto il controllo governativo. In questa maniera per il 2010 la Bolivia avrà ridotto la sua partecipazione alla produzione di coca con fini illegali dall’8,4% attuale all’1%. Per ottenerlo, il gabinetto di Morales ha inaugurato da tempo un progetto che chiama in causa le comunità locali e che chiede la partecipazione diretta dei contadini. Morales ha anche trovato un insperato alleato: il vicino Alan García ha infatti lodato la politica attuata dal governo boliviano, ritenendola la unica che, aprendo il mercato, rende inutili le piantagioni illegali.
Gli Usa, naturalmente non ci credono e manderanno a La Paz la prossima settimana una delegazione che valorerà le intenzioni del governo boliviano.
Fotoreportage sul Chapare ed i coltivatori di coca:
http://www.prensadefrente.org/pdfb2/index.php/fot/2006/05/07/p1457

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Friday, December 22, 2006

Le strane amicizie

Anoop Singh è un nome abbastanza sconosciuto per i più, ma non per Daniel Ortega, futuro presidente del Nicaragua (giurerà il 10 gennaio). Il signor Singh è il responsabile del Fondo Monetario Internazionale per l’emisfero occidentale ed è stato nei giorni scorsi a Managua per chiedere ad Ortega come crede di affrontare le questioni macroeconomiche del suo prossimo governo.
Ortega, attento e diligente, ha dichiarato all’austero signore indiano che non ha intenzione di cambiare una virgola. Il Nicaragua va bene così com’è, bisogna solo fare qualcosa in più per ridurre la povertà ed aumentare la crescita: questo, in sostanza, l’Ortega pensiero. Singh si è detto soddisfatto ed ha promesso di tornare a marzo, quando i due dovranno sottoscrivere un accordo: allora, sì, bisognerà cominciare a fare sul serio.
Intanto, il BID (il Banco Interamericano de Desarrollo di cui abbiamo parlato più volte) ha promesso di mantenere il prestito di 100 milioni di dollari che dall’inizio della presidenza Bolaños sta destinando all’agricoltura nicaraguense. Singh ha parlato con la Reuter sul ruolo del Fondo Monetario in America Latina:
http://ar.today.reuters.com/news/newsArticle.aspx?type=businessNews&storyID=2006-12-19T162422Z_01_N19481810_RTRIDST_0_ECONOMIA-FMI-REFORMAS.XML

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Thursday, December 21, 2006

Il colpevole di Tlatelolco

Ci ha messo 920 pagine il giudice Ricardo Paredes Calderón per spiegare come e perchè l’ex presidente messicano Luis Echeverría progettò ed ordino il massacro di studenti a Tlatelolco il 2 ottobre 1968.
Echeverría fungeva al tempo come ministro dell’Interno e, ora è una certezza, diede direttamente gli ordini al comandante del Batallón Olimpia di aprire il fuoco sui manifestanti. Sul selciato rimasero centinaia di morti, feriti dai colpi dei fucili e poi finiti alla baionetta. Il massacro, iniziato alle sei del pomeriggio, diede poi spazio ad una notte di repressione, dove centinaia di giovani vennero arrestati e torturati dalla polizia. Esercito ed agenti entrarono nelle case del quartiere alla ricerca dei manifestanti che si erano dati alla fuga e con brutalità passarono per le armi quanti si opponevano all’intrusione.
Dato che il Messico era sotto l’occhio dell’opinione internazionale per l’imminenza delle Olimpiadi, prima dell’alba i camion della spazzatura ripulirono la piazza, portandosi via anche i morti, che poi finirono nelle sterminate discariche della capitale. Al mattino, sembrava che nulla fosse accaduto.
Echeverría, che poi divenne presidente della Repubblica, aveva sempre negato la sua partecipazione diretta e per tutti questi anni è riuscito a sfuggire alla giustizia. Per lui, che ha 84 anni ed è già agli arresti domiciliari data l’età, è scattata anche l’accusa di genocidio già che, secondo i piani, l’azione dell’esercito doveva portare all’eliminazione totale di quanti protestavano nelle piazze.
Una testimonianza struggente di quel giorno viene data nel film “Amanacer rojo” , (
http://cinemexicano.mty.itesm.mx/peliculas/rojo.html) di Jorge Fons.
Le foto della strage:
http://www.jornada.unam.mx/2005/10/02/mas-jesus.html

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Wednesday, December 20, 2006

Alan García, il reazionario

In un’America Latina solcata da cambiamenti e da personalità dirompenti, il Perù di Alan García in questo 2006 che si conclude non ha fatto quasi mai notizia. Eppure García, di tradizione socialdemocratica (su cui rimangono molti dubbi), repressore per calcolo (ai tempi della sua prima presidenza) e neo liberale per scelta, si è scoperto ora anche reazionario.
Da mesi il presidente peruviano sta premendo con il Congresso perchè diventi effettivo il progetto di legge che ripristina la pena di morte. Secondo García sarebbe questa la strada da seguire per reprimere i rigurgiti senderisti che quest’anno hanno fatto una ventina di morti, gli ultimi otto in un’imboscata lo scorso fine settimana. Eppure, Sendero, secondo dati del Ministero dell’Interno, è ridotto a circa duecento effettivi, al soldo del narcotraffico nelle regioni di Ayacucho e Huancavelica. Pochi, sebbene sempre pericolosi.
Possono le nefandezze di 200 persone giustificare il ricorso alla pena di morte? García avrà molti difetti, ma non è uno stupido. Da qualche parte vuole andare a parare. Come insegna l’esperienza, l’ex golden boy dell’Apra è sempre stato un campione dei poteri speciali usati senza molta discrezione e con poca fortuna in tutti i campi, dall’economia alla pubblica sicurezza e così via. Sui diritti umani, poi non ne parliamo.
In barba alla convenzione di San José, che dal 1969 raccoglie le nazioni latinoamericane che hanno abolito la pena di morte, il Perù prende quindi la strada contraria.
Come al solito, il polso sull’argomento secondo i blog peruviani:
http://vozdeizquierda.blogspot.com/2006/11/conviccin-de-matarife-alan-garca.html
http://rutadelzahir.blogspot.com/2006/11/la-pena-de-muerte.html
http://suteregional.blogspot.com/2006/11/peru-alan-garca-apela-nuevos.html

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Tuesday, December 19, 2006

Il Pinochet inedito: "sono sempre stato democratico"

La Tercera ed El Mercurio, i due principali quotidiani cileni hanno pubblicato in contemporanea nell’edizione domenicale due interviste inedite a Pinochet. Entrambe risalgono al 1998 e quella del Mercurio, in particolare, venne raccolta quando ancora non erano iniziati i guai giudiziari. Vi traduco le parti più interessanti: la teoria sui desaparecidos (fatti scomparire dai loro stessi compagni), la definizione di democrazia (piuttosto ambigua), l’opinione sulla sconfitta elettorale del ‘90. L’autrice è Magdalena Ossandón.
C’è stata una forte opposizione quando ha giurato come senatore. Proteste di piazza, striscioni, denunce...”
Interrompe la domanda ed alza la voce: “Proteste di chi?”.
Dei familiari dei detenuti scomparsi, per esempio. Come valutò la situazione di accettare l’incarico nonostante la resistenza di alcuni settori?”.
“E se fosse stato al contrario?... quelli che morirono caddero perchè avevano armi e perchè spararono con esse. Mi sembra strano che ogni volta ci fosse uno scontro a fuoco tra militari ed oppositori non ci fossero mai morti. Solo macchie di sangue e nessun ferito. Questo era perchè se li portavano via. Qualcuno deve essere pur morta e i loro compagni le seppellirono. Lo ha mai pensato?”.
L’edificio del Congresso suggerisce immediatamente la parola democrazia. Come definisce questo concetto?”
Sorride. “... La democrazia è prima di tutto la libertà dell’uomo. Poter andare dove uno vuole, fare quello che uno vuole, proteggere. Infine, non finiremmo mai di dire cos’è la democrazia. Democrazia non è prendere le cose e gettarle. Bisogna meditarle, perchè si può fare del male ad altri... altrimenti già non è democrazia”.
"Si considera un democratico?".
“Sono sempre stato democratico, nonostanti si pensi che io sia un tiranno o un dittatore. Se lei legge i primi decreti della Giunta, il fine era quello di ristabilire la democrazia. Feci nominare una commissione perchè studiasse la Costituzione, perchè considero che non ci possa essere un governante senza limiti. Ci appellammo alla Costituzione anteriore finchè non apparve quella del 1980, che sorse dopo lo studio e l’esperienza di altre nel mondo”.
"Però lei viene indicato in tutto il mondo come un ex dittatore. Ha governato per 17 anni senza essere stato eletto con suffragio universale".
“Lei pensa che io lasciai il potere per mia volontà o per un suffragio? Ci fu un suffragio e persi. Quindi consegnai il potere tranquillamente. Non piansi. I cittadini decisero di cambiarmi... Sono stato uno dei pochi a consegnare il potere e lo feci perchè mi resi conto che i cittadini non volevano che continuassi. Inoltre, lei dovrebbe sapere che i dittatori che rimangono al loro posto finiscono male. Rivoluzioni e atti vandalici”.
"Si considera una persona umile?".
“No. Sono un uomo semplice. L’umiltà è un’altra cosa”.
"È diventato più mite con il passare degli anni? Si è umanizzato?".
“Sono sempre stato lo stesso, signora, sempre! Non mi sono mai umanizzato o disumanizzato. Sono sempre stato lo stesso: corretto. Aiuto la gente che posso aiutare. Tendo una mano ai miei nemici o alle persone a me contrarie, perchè così mi è stato insegnato”.
"Cosa significano quelle sue foto dei primi tempi, con gli occhiali scuri? La sua immagine era temibile".
“Le dico una cosa. Sa da quante notti non stavo dormendo? Tre notti. Gli occhi mi lacrimavano ed erano irritati. E siccome quei gentiluomini dell’opposizione, in quel momento, cercavano qualsiasi pretesto per fare del danno ad uno, sfruttarono quell’immagine”.
L’intervista integrale è sul sito del Mercurio:
http://diario.elmercurio.com/2006/12/17/reportajes/_portada/noticias/61EC7FB5-AC8F-432A-ABC0-36D51EB5C0CA.htm

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Monday, December 18, 2006

I diritti di Oaxaca

Repressa la protesta, ora ad Oaxaca si marcia per chiedere un altro tipo di giustizia, quella che interessa i centinaia di detenuti incarcerati durante i disordini degli scorsi mesi ed in particolare di quelli finali del 25 novembre. Nel peggiore stile repressivo, i detenuti sono stati trasferiti nelle prigioni di altri stati del Messico, lontani dai loro cari e dalla loro città. Una punizione che vuole essere un monito e che, lungi dal garantire la giustizia, ha il sapore della vendetta da parte delle autorità. Secondo fonti ufficiali 98 degli arrestati sono stati inviati a Nayarit, a 1200 chilometri di distanza da Oaxaca.
La marcia di protesta, condotta dai collettivi femminili, è un segno che –proprio nel giorno del ritiro della Polizia federale- la mobilitazione continua.
Ulises Ruíz, il governatore che, nonostante la rivolta popolare continua a rimanere incollato alla poltrona, è tornato a fare proselitismo, presentandosi a tutti gli atti ufficiali che dovrebbero dimostrare come la legalità sia tornata nella città. Ieri era nella sede del giornale “Adiario” e, dopo aver mandato la polizia a sparare sui manifestanti e scatenare un putiferio che è costato morti e tragedie, ha parlato di riconciliazione.
Le foto della manifestazione di domenica sono su questo link:
http://www.flickr.com/photos/46538313@N00/
Per seguire la vicenda di Oaxaca giorno dopo giorno dai resoconti dei protagonisti:
http://www.asambleapopulardeoaxaca.com/
http://oaxacaenpiedelucha.blogspot.com/

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Sunday, December 17, 2006

Morte in Costa Rica

La notizia della morte del giovane Giorgio Gallo qui in Costa Rica è stata riportata da tutti i giornali italiani. Meno, da quelli costaricensi: solo Diario Extra, foglio sensazionalista l’ha fatto, usando toni duri per l’indifferenza in cui si è consumata la tragedia. Giorgio, infatti, ha lottato per lunghi minuti contro i suoi aggressori, davanti a decine di passanti che non hanno mosso un dito per aiutarlo. Ha difeso il suo computer da due balordi che, come purtroppo è diventata abitudine, l’hanno prima aggredito e quindi finito a colpi di pistola.
Cosentino, Giorgio aveva intenzione di investire in un’attività nel settore dei pannelli solari. Il fatto è avvenuto a Desamparados, un grosso centro della periferia sud della capitale San José, un sobborgo di quasi centomila abitanti dove i fatti di delinquenza sono ormai divenuti pane quotidiano. Proprio ieri parlavo con Federico Geremei, di Marco Polo Tv, di come i costaricensi abbiano perso il loro paradiso. Anche qui, come negli altri paesi dell’America Latina, il degrado sociale e l’incapacità di avviare politiche di riforma sull’educazione, l’emigrazione e l’impiego hanno creato una generazione di giovani spietati che, privati ad ogni accesso, hanno fatto della violenza il loro credo. Di fronte al pericolo, i cittadini si armano e le aggressioni si trasformano spesso in sparatorie dove sopravvive chi ha più sorte.
Giorgio era già venuto in Costa Rica, ma probabilmente non sapeva che Desamparados è terra di nessuno e che un turista con una lap top è una facile preda. Se qualcuno ha ancora l’idea della Costa Rica pura vida, si metta pure il cuore in pace. L’articolo di Diario Extra:
http://www.diarioextra.com/2006/diciembre/16/sucesos04.php

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Saturday, December 16, 2006

Il paradosso boliviano

Quello che sta accadendo in Bolivia è paradossale. L’oligarchia è in rivolta e chiede al governo centrale gli strumenti legali per poter imboccare la strada della divisione. La classe dirigente bianca e oligarca, che ha sempre represso nel sangue le rivolte provenienti dal basso, si rifiuta di partecipare alla vita politica attiva del Paese e chiede autonomia e, da alcuni settori, la secessione. Le province ribelli sono quattro: Santa Cruz, Tarija, Beni e Pando con un territorio sterminato, grande otto volte l’Italia e ricco di risorse. Sono le regioni dell’oriente, quelle che non vogliono riconoscersi con le popolazioni andine, le stesse che hanno giudicato la presidenza di Morales un affronto ed un’ingerenza insostenibile. Finchè a governare sono state loro, la Bolivia doveva rimanere unita a suon di bastonate e repressione. Ora, che sulla sedia presidenziale c’è un cholo, gridano allo scandalo ed all’autonomia.
Morales le ha tentate tutte. Conscio di avere gli occhi del mondo addosso, ha assunto sinora una posizione ferma ma di dialogo, sforzandosi di mantenere gli avvenimenti, spesso provocatori, nel quadro della legalità.
Ieri, le quattro province hanno convocato le assemblee popolari per dimostrare come la volontà della gente sia quella di spingere per la autonomia. L’ennesima misura di pressione che, invece di “dimostrare il carattere democratico del popolo boliviano” come hanno affermato alcuni dirigenti autonomisti, dimostra chiaramente la volontà di creare disordine in un paese già abbastanza tormentato. Gli effetti non si sono fatti aspettare: l’esasperazione della popolazione indigena, alla quale è stata da tempo promessa una dovuta riforma agraria unita alla provocazione autonomista ha creato una miscela esplosiva.
I feriti ieri sono stati una sessantina negli scontri scoppiati tra le due fazioni e la situazione può degenerare in qualsiasi momento. Morales ha invitato le parti a negoziare, ma è certo che ormai nella Bolivia di oggi quello che si svolge è un dialogo tra sordi.

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Friday, December 15, 2006

La mala erba non muore mai

È stato un uomo che ha sconfitto il modello marxista in piena Guerra fredda, un modello che pretendeva imporre il totalitarismo non attraverso il voto, ma direttamente per mezzo delle armi”.
Augusto Pinochet Molina è un degno nipote. Fermo, deciso, vestendo la sua brillante uniforme di capitano dell’esercito ha trasformato le esequie civili del dittatore Pinochet in un comizio politico. Cambiare la storia, renderla malleabile per i propri fini è sempre stato un vizio di famiglia dei Pinochet. Il Pinocchietto junior ha appreso bene la lezione ed ha approfittato della prima vera tribuna che gli si offriva per attaccare i poteri dello Stato. Non era mai successo da quando l’esercito è rientrato nella sfera di controllo dell’esecutivo, astenendosi da qualsiasi interferenza con la vita politica del Paese. Un segno di maturità da parte di un’istituzione che negli anni anteriori si era macchiata di delitti contro l’umanità ed i diritti umani dei singoli cittadini.
Tutto bene finora, fino a quando cioè un altro Pinochet si è trovato con l’occasione sperata.
Ha dovuto librare la battaglia più dura durante la vecchiaia, quando sua moglie e la sua famiglia sono stati vessati da giudici che cercavano più la propria fama che la giustizia” ha continuato Junior, attaccando direttamente la magistratura.
Troppo, soprattutto nel Cile di oggi, che Lagos prima e la Bachelet ora stanno cercando di indirizzare verso una severa legalità e di rispetto verso le leggi. Junior è stato immediatamente radiato dall’esercito ed ora la sua uniforme la potrà vestire solamente nel salotto di casa.

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Thursday, December 14, 2006

Messico: l'esercito contro i narcos

Michoacán è la regione messicana che ha dato i natali al neo presidente messicano, Felipe Calderón. Da qualche tempo a questa parte è anche una delle prede del narcotraffico e della corruzione: morti ammazzati (decapitati secondo un macabro rituale), taglieggiamenti, bande che si fanno la guerra, coltivazioni e laboratori clandestini, la gente comune che vive in ostaggio.
Calderón a partire da martedì ha mandato cinquemila effettivi dell’esercito a Morelia (il capoluogo) e in tutto il Michoacán per fare sentire la presenza dello Stato. Ce n’è bisogno senza dubbio, ma la domanda sorge spontanea: si tratta di una mossa per attirare le simpatie dell’elettorato (le acque sono sempre agitatissime), di una misura seria, destinata a riportare davvero la legalità nella regione o c’è la volontà di pestare i piedi ad un avversario di governo? Michoacán è infatti governata da Lázaro Cárdenas Batel, figlio di Cuauhtemóc, leader del PRD, il Partido de la Revolución Democrática che proprio d’accordo con il PAN di Calderón non ci va.
Le cose, comunque sia, nel Michoacán vanno malissimo: la Sierra Madre, che si staglia nel mezzo, è una presenza possente, che nasconde anfratti naturali che i cartelli usano per la coltivazione dell’amapola e per la sua trasformazione. I morti ammazzati quest’anno finora sono 600, una bella cifra.
Ieri, oltre ai primi arresti –una decina- c’è stato un primo cruento scontro a fuoco tra esercito e bande, con un saldo provvisorio di cinque morti.
Cronologia dell’escalation della violenza in Michoacán:

http://michoacan.contralinea.com.mx/archivo/2005/octubre/htm/radiografia+guerra.htm

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Tuesday, December 12, 2006

A Guantánamo tutto bene

Vi posto questo link con un foto reportage di Malena Marchán sull’interno della prigione di Guantánamo. Il fatto è senza dubbio esclusivo, ma dato che il giornale che lo pubblica è conservatore (Tiempos del Mundo) non c’è da meravigliarsi.
La meraviglia, invece, è che risulta tutto pulito ed ordinato: non c’è polvere, non ci sono truci secondini, e guarda che sorpresa, non ci sono nemmeno i prigionieri.
Si intravvedono appena in uno scatto, come se passassero di lì per caso. Insomma, se avevate qualche dubbio sul rispetto dei diritti umani nella prigione (
http://web.amnesty.org/pages/guantanamobay-index-esl) non c’è da preoccuparsi, perchè a Guantánamo tutto funziona bene:
http://www.tiemposdelmundo.com/galerias/Conoce_la_prision_de_Guantanamo.html

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Monday, December 11, 2006

La memoria corta degli Usa

Tra i migliaia di commenti che sono seguiti alla morte di Pinochet, stride in particolare uno: quello del Dipartimento di Stato Usa. Condannando l’operato del dittatore, il portavoce della Casa Bianca, Tony Fratto, felicita i cileni per aver costruito una società libera e basata nel rispetto dei diritti umani.
Ci fanno o ci sono? Ormai anche i bambini delle elementari sanno che la CIA ed il governo statunitense prepararono ed appoggiarono il golpe, deviando milioni di dollari sui militari, attraverso le multinazionali che operavano in territorio cileno. Sugli Stati Uniti, come su Pinochet, versa la vergogna dell’orrore in cui trascinarono non solo il Cile, ma tutta l’America Latina in un imbuto di terrore e di disperazione.
Dopo aver preparato la generazione dei dittatori nella School of the Americas di Panama (Noriega, Banzer, D’Aubuisson –quello che ammazzò monsignor Romero-, Viola, Galtieri, l'ecuadoriano Rodríguez, Montesinos ecc.), gli Usa mandarono centinaia di istruttori militari nei bui sotterranei della Dina a Santiago, della Esma in Argentina, del Aguacate in Honduras ad insegnare come massacrare la gente. Non solo comunisti, come volevano far credere, ma gente comune, la linfa vitale della società libera: professori, artisti, religiosi, imprenditori, studenti. Non dimentichiamoci cos’era l’America Latina negli anni Settanta ed Ottanta, non dimentichiamo la Storia.
“Il nostro pensiero è oggi con con le vittime dei regimi e con le loro famiglie”: così ha detto il portavoce Fratto.
Cinico, no?

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Sunday, December 10, 2006

Muore Pinochet: la fine del male

Ci sono personaggi che con la dipartita liberano il mondo della loro presenza ostile e malefica. Augusto Pinochet è stato senz’altro uno di questi. Arrivò al potere tradendo la repubblica per la quale aveva giurato fedeltà, provocando non solo la morte di Allende ma macchiandosi dell’assassinio di più prestigiosi militari che ne avevano accompagnato l’ascesa, come Prats. Allende, bontà sua, lo aveva voluto al vertice della gerarchia militare pochi giorni prima del golpe. Fu ripagato con una delle pagine più nere nella storia dell’America Latina. Pinochet, all’apparenza un essere insignificante, dalla voce stridente e dalle maniere isteriche, è sempre stato sostenuto da una sfrenata ambizione, che andava molto aldilà del suo odio per il comunismo e che calpestava ogni parvenza di rispetto per la vita umana. Era animato dalla brama di potere, da quel diavolo insano che cova nel profondo di alcune persone, spesso mediocri, e che dilaniano il quieto vivere dei più.
Per questo e per il cinismo con cui ha marcato la sua carriera di dittatore, mandando a morire senza pietà migliaia di persone, Pinochet meriterebbe un posto a parte nella “Storia universale dell’infamia” di Borges, perchè molto più infame di Lazarus Morell che emancipava gli schiavi neri per poi venderli a un’altra piantagione o dello spietato assassino Monk Eastman.
Pinochet è stato una persona orribile. Purtroppo, nel Cile di oggi sono in tanti, tantissimi a difenderlo, giustificando il suo operato con la facile spiegazione di aver salvato con il suo operare la patria dal pericolo rosso. È un’interpretazione di comodo, che passa sopra le migliaia di drammi familiari, le torture, le morti, il terrore instaurato dal peggiore regime che la storia recente dell’America Latina ricordi. È una maniera anche per sminuire il peso di quegli avvenimenti, perchè il Cile ed i cileni non vengano ricordati solo per quel periodo triste. Di fatto, appena hanno potuto, i cileni si sono dati un governo democratico e si sono rimboccati le maniche per costruire una nazione tra le più salde in tutta l’America Latina. Chi ne dà il merito a Pinochet è cieco o non capisce niente.
Pinochet è stato un peso –e continuerà ad esserlo per lungo tempo- per le coscienze ed un nemico per gli ideali più puri a cui può aspirare il genere umano: la pace, il rispetto, la libertà.

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Il futuro inizia a Cochabamba?

Quale via per il Sudamerica? Il summit che si sta tenendo a Cochabamba, in Bolivia, è iniziato nel peggiore dei modi, con una tempesta che ha lasciato quattro morti, decine di feriti e senza tetto, per non parlare delle manifestazioni di protesta organizzate dall’opposizione a Evo Morales.
Integrazione, lotta alla povertà, moneta unica, fusione tra Comunidad Andina e Mercosur sono alcuni dei temi che si stanno dibattendo e proprio sull’integrazione nascono i primi interrogativi, già che l’argentino Kirchner –che eppure a parole ha sostenuto il ruolo della Bolivia di Morales- non si è presentato all’appuntamento. Anche Colombia e Paraguay hanno mandato solo i loro ministri. Nel ruolo di invitati ci sono però Daniel Ortega e Rafael Correa, attenti a vedere cosa succede nella regione in vista delle loro prossime presidenze.
Tutti d’accordo, comunque, che la via da seguire è quella dello sfruttamento in loco delle risorse naturali. Si parla molto di rispetto per l’ambiente, però a trapelare è più l’interesse a mantenere i profitti dello sfruttamento nei propri paesi. Tempi duri per le multinazionali, quindi e soprattutto per le mire degli Stati Uniti, sempre più tagliati fuori dalle alleanze commerciali con i paesi latinoamericani.
Da notare la posizione del Perù che, nonostante le profonde differenze politiche con la Bolivia ed il Venezuela, si è detto sostanzialmente d’accordo con quanto discusso. A sorpresa, Alan García ha proposto un’integrazione educativa per combattere la povertà, oltre all’istituzione di una moneta unica per il Sudamerica.
Sono parole di politici, naturalmente, per cui vanno prese con le molle. Ciò nonostante è interessante notare come, nonostante le differenze, i governi sudamericani stanno trovando un’identità e punti in comune.
Qui l’intervista che Morales ha rilasciato al Clarín: http://www.clarin.com/diario/2006/12/09/elmundo/i-03215.htm


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Friday, December 08, 2006

Chiara un anno dopo

Vi ricordate Chiara? Giusto un anno fa diventavo papà per la seconda volta e questa è la piccola come appare oggi. Ha iniziato a camminare e dice mamá, papá, agua ed ha imparato a litigare con il fratello Humberto. Prossimo appuntamento, per i due anni.

Da El Salvador in Iraq ad oltranza

Mentre tutti se ne vanno dall’Iraq, il presidente Tony Saca ha chiesto al suo Congresso di votare la permanenza dei soldati salvadoregni fino al 31 dicembre del 2007. Non solo, ma va contro tendenza, chiedendo che il contingente –attualmente di 389 unità- venga raddoppiato. Che cosa spinge Saca a mandare ancora truppe? Sicuramente gli preme che gli Usa riconoscano un trattamento speciale alla situazione migratoria dei salvadoregni: se dovessero essere rimandati a casa, El Salvador, che basa gran parte della propria economia sulle rimesse degli emigrati, collasserebbe. È importante quindi mantenere la parte del grande alleato fino in fondo, non importa le critiche che la stessa amministrazione Bush sta ricevendo sulla disastrosa guerra in Iraq.
Le critiche piovono anche addosso a Saca. El Salvador ha subito negli ultimi anni una serie di calamità naturali (ricordiamo per esempio l’uragano Stan e l’eruzione del vulcano Ilamatepec), che ha lasciato una stela di morti e distruzione. Il Frente Farabundo Martí, dall’opposizione, tuona: invece di mantenere una dispendiosa missione in Medio Oriente si sarebbero potuti aiutare i migliaia di senza tetto che ancora oggi non hanno dove ripararsi e con che sfamarsi. El Salvador è l’unico paese latinoamericano a mantenere le sue truppe in Iraq.
Per la cronaca: i primi ad andarsene dall’Iraq furono, nel febbraio 2004, i 192 soldati di Singapore. Dopo di loro hanno abbandonato il campo (l'ordine non è cronologico) Polonia, Italia, Ucraina, Olanda, Spagna, Giappone, Bulgaria, Tailandia, Honduras, Nicaragua, Ungheria, Repubblica Dominicana, Norvegia, Portogallo, Nuova Zelanda, Filippine, Tonga e Islanda.
Chi c’è ancora? Usa, Gran Bretagna, Corea del Sud, Australia, Romania, Danimarca, Georgia, El Salvador, Azerbaijan, Lettonia, Mongolia, Albania, Slovacchia, Lituania, Armenia, Bosnia, Estonia, Macedonia, Kazakhistan e Moldova.
I salvadoregni sono arrivati nel paese mediorientale nell’agosto del 2003 e da allora hanno subito cinque perdite ed una ventina di feriti.
Il sito della missione salvadoregna in Iraq:
http://www.fuerzaarmada.gob.sv/porira2004.html

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Thursday, December 07, 2006

Paraguay senza giustizia

Il primo agosto 2004 è una data che è rimasta incancellabile nel ricordo e nelle coscienze dei paraguayani. Quel giorno, verso mezzogiorno, un supermercato della catena Ycuá Bolaños nella capitale Asunción prese fuoco per il deficiente funzionamento di un sistema di aerazione. Centinaia di persone si trovarono intrappolate all’interno, trovando non solo le uscite di sicurezza sbarrate, ma anche quella principale chiusa per l’ordine diretto dei proprietari del supermercato.
Il numero totale dei morti non è mai stato completamente accertato: mentre le fonti ufficiali parlano di 392 vittime, è quasi sicuro che le persone rimaste soffocate o bruciate nella ressa furono più di cinquecento.
Si trattò di una tragedia immane, portataci nelle case dalla televisione, che mostrava i pompieri estrarre i corpi calcinati di donne, vecchi e bambini e le scene di disperazione di quanti riconoscevano tra le vittime i loro cari.
La ricostruzione della vicenda dimostrò come i proprietari del supermercato – Juan Pío Paiva e suo figlio Daniel- avessero dato l’ordine alle guardie private di proibire l’uscita a qualsiasi cliente: “Nessuno esce senza pagare” ordinarono. La gente all’esterno, resasi conto di quello che stava succedendo, iniziò a tirare pietre per rompere le vetrate e permettere alla gente di uscire. Il primo pompiere ad intervenire, ancora in abiti civili, dovette ritirarsi perchè una delle guardie gli sparò contro due colpi di pistola. Intanto dentro, la gente bruciava. Sedici bambini morirono mentre festeggiavano il compleanno di un loro compagno; altri trenta sono rimasti orfani per aver perso entrambi i genitori nella tragedia.
Il processo ha dimostrato come l’incendio fosse stato generato dalla corruzione e dall’avarizia: per cinque anni di funzionamento i funzionari municipali non avevano mai visitato le installazioni del supermercato per verificarne l’agibilità. I Paiva, cinici e orrendi solo al vederli, sono il classico prodotto della corruzione. Hanno elargito denaro a destra e a manca per e, ancora oggi, non dimostrano pietà per le migliaia di vittime che hanno provocato tra morti, orfani, ustionati.
Anzi, alla fine del processo farsa hanno ottenuto la più mite delle condanne: cinque anni per omicidio colposo. I giudici Manuel Aguirre ed Elio Ovelar non hanno ritenuto di dichiarare il dolo, per il quale la condanna era di venticinque anni: “L’ordine di chiudere le porte non comportava l’intenzione di uccidere” si legge nella sentenza.
Martedì, alla lettura, la rabbia della gente si è scatenata. Uno dei supermercati dei Paiva è stato saccheggiato, mentre i familiari delle vittime hanno distrutto l’aula del tribunale, cercando anche di bruciarla. I giudici sono scampati al linciaggio solo per l’intervento in forze della polizia. I disturbi sono continuati fino a mezzanotte in tutta la città, facendo più di cinquanta feriti. Se la giustizia non esiste, almeno c’è ancora chi ha la capacità di indignarsi.

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Wednesday, December 06, 2006

Diminuisce la povertà in America Latina

Diminuisce ancora la povertà in America Latina. I risultati sono stati resi noti nella relazione annuale della Cepal, la Commissione economica per l’America Latina con sede a Santiago.
Anche la disoccupazione si riduce ed insomma, il quadro che viene dipinto, è abbastanza promettente. Merito delle economie liberali o dei governi di sinistra? La relazione non lo dice espressamente, ma quando elenca i paesi dove si sono registrati i miglioramenti sembra che sia valida la seconda ipotesi: Argentina e Venezuela guidano questa speciale classifica.
Non bisogna comunque cantare vittoria. La povertà interessa 205 milioni di persone, delle quali 80 milioni vivono nell’indigenza. Traguardo della Cepal –che è un organo delle Nazioni Unite- è quella di dimezzare queste cifre per l’anno 2015, attraverso programmi sociali ed investimenti mirati. Per il momento, solo Brasile e Cile stanno riuscendo a seguire le mète proposte anno dopo anno dalla Cepal.
Altri dati sullo stato dell’America Latina riguardano i salari, ancora insufficienti per garantire un moderato benessere per la maggioranza della popolazione e la differenza tra i generi, dove la donna risulta ancora lontana dal colmare la breccia che la divide dall’uomo in tutte le istanze della società, dal lavoro alla formazione professionale, dall’istruzione alle pari opportunità. Sul sito della Cepal (
http://www.eclac.org/) è possibile scaricare in formato pdf le differenti ricerche e statistiche riguardanti i dati del 2006 e gli anni scorsi

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Tuesday, December 05, 2006

Il futuro del Venezuela

Il Venezuela ha scelto di nuovo Chávez e questa volta l’ha fatto in forma perentoria. Il presidente ha vinto e per lui si apre la strada di un altro governo e la reale possibilità di portare avanti il progetto a lungo termine che, secondo le sue parole, lo porterebbe a governare fino al 2021. “Costruiamo un Venezuela socialista, indigeno, cristiano e bolivariano” ha gridato alla folla dopo l’annuncio della vittoria e, anche se le promesse di costruire una società nuova possono sembrare scontate, c’è da credere invece che Chávez di strada ne abbia già fatta molta. Da solo, intanto, non sta cambiando solo il Venezuela, ma anche tutta l’America Latina.
Dieci anni fa, il Venezuela era ancora uno Stato di poche famiglie, che si dividevano le fette di potere secondo i settori di ingerenza. La grande maggioranza della popolazione serviva, nel vero senso della parola, la forte oligarchia, secondo i sistemi più odiosi del vassallaggio. Chávez ha rotto queste catene e le ha mostrate a tutto il continente, attirandosi l’odio dei potenti, ma guadagnandosi l’amore viscerale di un popolo che elezione dopo elezione lo sostiene: nel 1998 ebbe il 56% delle preferenze, nel 2000 il 60%, oggi quasi il 62%.
In poche parole, Chávez ha dato al Venezuela un’identità di nazione. L’ha fatto mostrando e perseguendo una via –quella della rivoluzione bolivariana-, cambiando i simboli patrii, discernendo dov’è il bene e dov’è il male (gli Usa), ma soprattutto disegnando per il Venezuela un ruolo guida nel futuro dell’America Latina.
Lasciando da parte i facili discorsi, la forza di Chávez si chiama innanzi tutto petrolio ed il denaro che la vendita del petrolio comporta. Il Venezuela ha in magazzino 700.000 milioni di barili che, una volta iniziato lo sfruttamento dei bacini dell’Orinoco, diventeranno 3 bilioni. Una cifra impressionante con cui il Paese può coprire il proprio fabbisogno per secoli, assicurando per sè e le nazioni amiche, un roseo futuro di sviluppo. Chávez, sta marcando il cammino per l’America Latina del XXI secolo, un’America Latina libera dall’ingerenza statunitense ed il cui diritto all’autodeterminazione sarà infine una realtà. Lo fa attraverso le ricchezze che possiede: il sottosuolo ed il popolo.
Attenzione però a credere che sia tutto rose e fiori, perchè il Venezuela è immerso in un’ondata di violenza senza precedenti. Quella dei sequestri è diventata, grazie alla connivenza della polizia, un’industria che genera soldi, impiego e tragedie quotidiane e che, soprattutto, mette i venezuelani l’uno contro l’altro.
Sulla società e su una società davvero ugualitaria dove qualsiasi cittadino –ricco o povero che sia- possa sentire i suoi diritti rispettati si svolge la scommessa del futuro venezuelano.
Il video con il discorso di Hugo Chávez:
http://www.antena3.com/a3noticias/servlet/Noticias?destino=../a3n/noticia/noticia.jsp&sidicom=si&id=11887283

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Monday, December 04, 2006

Dopo Chávez... Chávez

Tutto secondo copione in Venezuela, dove Hugo Chávez ha ottenuto la rielezione con un ampio vantaggio sul candidato oppositore, Manuel Rosales. Quando non si è ancora finito di scrutinare tutte le schede, il presidente mantiene una differenza di due milioni di voti di vantaggio, che corrisponde a circa il 18% dei votanti. Per lui ha votato quasi il 62% dei venezuelani, ancora una volta una larga maggioranza (http://www.cne.gov.ve)
La giornata elettorale si è svolta in maniera pacifica e ha dimostrato come Chávez mantenga tuttavia un vasto appoggio popolare. A differenza degli scorsi appuntamenti elettorali, l’opposizione ha fatto questa volta un grande sforzo organizzativo per confrontarsi con Chávez con il risultato delle urne, ma senza successo.
Sin dalle prime ore della mattinata ci sono state lunghe code davanti ai seggi (su questo link un video sulle file e l’ambiente che si respirava fuori dalle sedi elettorali:
http://www.kaosenlared.net/noticia.php?id_noticia=27526) ma la gente ha aspettato il proprio turno con pazienza.
Rosales già poche ore dopo la chiusura dei seggi ha riconosciuto la vittoria di Chávez. Non si cambia pagina, quindi. Il Venezuela continua sulla strada del chavismo.

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Sunday, December 03, 2006

Il motore per Marte

Su Diario in edicola da venerdì, questa settimana c’è il reportage sul motore al plasma che viene costruito qui in Costa Rica per portarci su Marte (www.diario.it).
Come avevo scritto ad agosto su questo blog, ero stato a visitare le installazioni della Ad Astra Rocket (
http://www.adastrarocket.com) l’azienda di tecnologia spaziale voluta dall’astronauta Franklin Chang. Questo articolo è il risultato di quella visita. Qui, invece, vi pubblico una primizia, ossia una foto del motore.

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I numeri dell'Aids

Sono almeno due milioni le persone contagiate dal virus dell’Aids in America Latina. I dati sono stati resi noti in occasione della giornata mondiale per la lotta contro la malattia ed hanno rivelato un’altissima incidenza nei paesi centroamericani. Qui, la media mondiale viene ampiamente superata dal Belize (in questo Paese il 2,5% della popolazione adulta ha contratto il virus), da Panama e dall’Honduras, come rivela lo studio dell’Organizzazione Panamericana per la Salute (http://www.paho.org/default_spa.htm).
Altri dati: 600.000 sono le persone morte nel continente da quando è stato scoperto il virus; 567 si contagiano ogni giorno.
Le cifre sono comunque una pura stima. L’emergenza è infatti molto più grave, già che i vari ministeri della salute non sono in grado di valutare l’espandersi della malattia in tutta la sua portata. Per ignoranza e mancanza di prevenzione l’Aids continua a diffondersi soprattutto nella parte della popolazione più giovane e più esposta economicamente.
Alcuni passi in avanti nelle campagne di propaganda sono stati fatti.
Mentre Bush professa l’astinenza, alcuni paesi latinoamericani prendono, per fortuna, la strada diametralmente opposta. In Uruguay è cominciata in questi giorni la campagna “Conmigo con condón” (con me con il preservativo), mentre in Argentina si è ricorso ai personaggi famosi, con i giocatori del Boca Juniors in prima fila. In Perù, alcuni gruppi della società civile hanno promosso la campagna “Condones al rescate”.
Il pericolo è però che dell’Aids –o del Sida come si conosce da queste parti- si parli solo in occasioni come queste. Per il resto dell’anno, la malattia o il contagio rimangono solo una questione privata.
Qui:
http://hivaidsclearinghouse.unesco.org/ev_en.php?ID=5335_201&ID2=DO_TOPIC un’esauriente documentazione sul contagio in America Latina.

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Friday, December 01, 2006

Il Messico e i suoi due presidenti

La polizia federale ha abbattuto l’ultima barricata di Oaxaca, (http://oaxacaenpiedelucha.blogspot.com/) proprio mentre ci si appresta, nella capitale messicana, all’insediamento di Felipe Calderón come presidente della Repubblica. Un segnale, senza dubbio di voler ristabilire la legalità dopo il lassismo dell’amministrazione Fox, ma anche un tassello in più nella battaglia –non solo verbale- che si sta svolgendo tra la destra e la sinistra. Mercoledì, nello scenario del Congresso messicano, sono state botte da orbi: http://www.youtube.com/watch?v=LsgLudeRyHo
I deputati della sinistra infatti hanno occupato la pedana destinata alla cerimonia, per impedire lo svolgimento del giuramento previsto per oggi. I due schieramenti, contrari e a favore di Calderón, mantengono le posizioni acquisite a suon di botte bivaccando ormai tra i banchi. Spettacolo ignominioso, ma di normale amministrazione nel Messico odierno. Intanto, López Obrador ha invitato Calderón a non presentarsi e di andare a giurare come presidente della Repubblica da un’altra parte. La risposta non si è fatta aspettare: Calderón ha detto che rispetterà la Costituzione e ci sarà in mattinata per ricevere la banda presidenziale.
I partitari di López Obrador, intanto, oltre ad occupare la tribuna della cerimonia, sono attivi anche all’esterno del Congresso, da dove già da giovedì mattina impediscono l’entrata di funzionari e deputati. La situazione è più che tesa. Sono infatti attese novantatré delegazioni da tutto il mondo e da alcune fonti è stato ventilata la possibilità di un intervento dell’esercito. Staremo a vedere.
L’adunata per boicottare Calderón si muove sui blog:
http://lahoradelpueblo.blogspot.com
http://www.elpueblonoestonto.blogspot.com/
http://www.senderodelpeje.blogspot.com/

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