blog americalatina

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"Hay muchas maneras de contar esta historia, como muchas son las que existen para relatar el más intrascendente episodio de la vida de cualquiera de nosotros".

Tuesday, October 31, 2006

In Uruguay non si cerca più

In Uruguay non si cerca più. L’ordine di sospendere indefinitamente le ricerche delle tombe dei desaparecidos della dittatura è venuto dallo stesso presidente, il socialista Tabaré Vázquez. In quattordici mesi, da quando si è iniziato a scavare, si sono trovati i resti di solamente due persone: poco per sostenere le ingenti spese che la ricerca comporta. D’ora in avanti il gruppo di investigatori dovrà cercare fondi privati per poter continuare nel lavoro.
La dittatura uruguaya durò dodici anni, dal 1973 al 1985 e lasciò una stela di almeno duecento oppositori eliminati extra giudizialmente. Il governo di Vázquez ha finalmente dato nomi e volti, nonchè condanne, ai responsabili delle torture e delle violazioni ai diritti umani. Ciò nonostante, ora deve gettare la spugna di fronte alla penuria economica, un fatto non nuovo nella storia recente dell’Uruguay.
Tra le storie dei desaparecidos, aveva particolarmente commosso quella di María Claudia García, nuora del poeta Juan Gelman, rapita dalla polizia segreta a Buenos Aires e portata a Montevideo. Qui la ragazza, che era incinta, prima di essere uccisa ebbe una bambina che fu adottata da una famiglia del luogo. La bambina venne chiamata Macarena e ha scoperto solo nel 2000 la sua vera origine.
Due link sui desaparecidos uruguayani:
http://premiumwanadoo.com/nolaimpunidaduruguay/id32.htm
http://www.desaparecidos.org/uru/
L’elenco dei desaparecidos:
http://www.serpaj.org.uy/inf97/listade.htm

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Monday, October 30, 2006

In Brasile tutto secondo copione

Lula vince con la larga maggioranza datagli da un 60% di voti, ed il quadro continentale non cambia. L’integrazione al Mercosur ha ottenuto così una solida piattaforma per i prossimi anni, già che le intenzioni del presidente brasiliano sono quelle di rafforzare le relazioni commerciali con i vicini. Per Lula sarà più difficile invece governare in casa, già che nel Congresso le forze questa volta sono rimaste divise.
Ancora una volta è stato determinante il voto dei più poveri. Secondo gli analisti, il 10% necessario per marcare la differenza, è confluito su Lula dopo che alcuni articoli vincolavano Alckmin con un progetto di smantellamento di alcune aziende pubbliche, nonchè con la cancellazione del programma di assistenza “Bolsa Familia”. Chi non aveva scelto Lula al primo voto, lo ha fatto ieri pensando proprio nel sostenere l’assistenzialismo statale.
Dei vari articoli apparsi nei giorni scorsi sulle elezioni brasiliane, ve ne sottopongo uno pubblicato sul sito in spagnolo della BBC, dove si parla dell’importanza del voto evangelico. Le chiese evangeliche sono in continua espansione e rappresentano ormai, non solo in Brasile ma in tutto il continente americano, un serbatoio di voti capace di influenzare il risultato di ogni elezione:
http://news.bbc.co.uk/hi/spanish/latin_america/newsid_6095000/6095596.stm

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Sunday, October 29, 2006

Sangue su Oaxaca

Ieri la situazione a Oaxaca è precipitata: ci sono stati quattro morti negli scontri causati proprio da agenti al soldo del governatore Ulises Ruiz. Il presidente messicano Fox ha inviato d’urgenza le truppe speciali, chiedendo la restituzione immediata degli edifici federali occupati dai manifestanti.
A Oaxaca, tra i quattro morti c’è il cameraman di Indymedia New York, Bradley Will, ucciso dagli spari che gli agenti hanno fatto indiscriminatamente tra la folla. Anche il giornalista del Milenio, Osvaldo Ramírez, è rimasto ferito.
Mentre a Oaxaca atterravano sei aerei militari che trasportavano le forze speciali provenienti dalla capitale, i manifestanti hanno edificato barricate su tutte le principali vie d’accesso alla città, bruciando automobili, e preparandosi allo scontro.
La situazione è precipitata venerdì, quando i dirigenti sindacali avevano fatto sapere che non sarebbero tornati al tavolo delle trattative senza prima avere ottenuto le dimissioni del governatore Ruiz, colpevole di aver dato l’ordine di sparare sui manifestanti (in maggioranza professori e studenti) il 14 giugno, con un saldo ufficiale di quattro morti, tra cui due minorenni.
La risposta degli sgherri di Ruiz non si è fatta attendere. I paramilitari sono intervenuti producendo una ventina di agguati in vari punti della città, scatenando una escalation dalla quale ora c’è da temere il peggio.
L’immagine mostra gli assassini di Brad Will mentre continuano a sparare sulla gente. Vari siti Indymedia documentano il dramma che sta vivendo Oaxaca in queste ore:
http://nyc.indymedia.org/es/index.html
http://chiapas.indymedia.org/
http://mexico.indymedia.org/tiki-index.php?page=ImcMexico

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Saturday, October 28, 2006

Il muro è servito

Il muro si farà. L’iter legale è finito, Bush ha firmato, gli Usa sono infine a salvo dalle ondate di messicani e latinoamericani che premono sulla frontiera sud. Le reazioni non si sono fatte attendere. Le critiche sono arrivate da tutte le parti, ma non dimentichiamo che la misura era attesa perchè, come tutto nell’amministrazione Bush, si fa in vista dei reclami politici. Tra undici giorni, infatti si vota per il Senato e la situazione dei repubblicani è pessima. Bush cerca di riguadagnare un poco di terreno facendo il duro, ma questa volta sembra proprio che ci sia poco da salvare.
Le reazioni. Il cancelliere salvadoregno, Eduardo Cálix, ha detto che “i muri non frenano i processi migratori. Questa misura aumenterà solo la corruzione e la tratta di uomini e donne”. Vicente Fox, il presidente messicano, ha dichiarato che “il muro è una vergogna che va contro i principi di un popolo che si dice libero”.
Calderón, suo successore, lo considera “inutile che costerà molto caro ai contribuenti statunitensi. L’umanità ha commesso un errore erigendo il muro di Berlino e gli Usa oggi commettono lo stesso errore di allora”.
Nicolás Maduro, ministro degli esteri venezuelano, dice che “gli Usa dimostrano tutto il loro razzismo con questa misura che va contro tutti i popoli latinoamericani”.
Il fondo su Juventud Rebelde, di Cuba parla di “un fiasco che non risolverà i problemi interni di Bush”.
La scrittrice Sandra Cisneros, autrice di successo negli Usa, di origine ispane, non ha risparmiato le critiche: “Il razzismo che pervade gli Stati Uniti è lo stesso che si poteva sentire nella Germania negli anni Trenta. I messicani di oggi sono gli ebrei di allora”. Ha anche coniato un vocabolo: mexifobía.
Su flickr, 112 foto su uno dei muri già costruiti, quello di Tijuana:
http://www.flickr.com/search/?q=tijuana+wall

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Friday, October 27, 2006

Intervista a Sergio Ramírez

Il Congresso del Nicaragua ha approvato la legge che penalizza l’aborto, in ogni grado esso venga praticato. A pochi giorni dalle elezioni è questo il “regalo” più evidente, che i deputati del Frente Sandinista potevano fare ai loro alleati della destra di Alemán. È un segno di intesa per le elezioni, che dimostra la validità del Patto siglato verbalmente tra Daniel Ortega e il caudillo liberale Arnoldo Alemán, l’ex presidente oggi in prigione per corruzione e narcotraffico. Destra e sinistra, insomma, si incontrano nel peggiore dei disinganni creati dalla politica latinoamericana negli ultimi anni. Ortega da rivoluzionario è diventato ora, pur di afferrarsi al potere, difensore dell’ideologia della Chiesa cattolica più bigotta.
Il panorama che si apre sulle elezioni del 5 novembre è quindi poco gratificante. Ho intervistato lo scrittore Sergio Ramírez, che dell’FSLN è stato vicepresidente durante gli anni del sandinismo al potere, ed oggi forte critico di Ortega. L’intervista è apparsa in italiano su Peacereporter:
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=6508
Vi invito a leggerla, già che in essa si traccia un’interessante visione del Nicaragua attuale, su cui le prossime elezioni presidenziali possono incidere profondamente.

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Wednesday, October 25, 2006

I conti sulla libertà di stampa

È stata resa nota la relazione annuale di Reporters sans frontières, il termometro della libertà di stampa nel mondo. L’Italia ne esce male –non solo per i giornalisti velina che riempiono le redazioni, ma per le leggi inadeguate-: quarantesimo posto, un gradino piccolo piccolo più su del Salvador dove, eppure, tutti i mezzi di comunicazione fanno le fusa al governo di destra.
L’America Latina ha fatto degli importanti passi avanti. Prima dell’Italia ci sono la Bolivia (prima nazione non europea: sorpresi della cura Morales?), la Costa Rica e Panama. Gli Usa, per colpa delle leggi di protezione sul terrorismo, sono ormai al livello del Botswana, subito sotto la Repubblica Dominicana. Chi va male tra i paesi latinoamericani sono Messico e Colombia, terre di mafia e di cartelli: peggio di loro nel continente c'è solo Cuba.

Su questo link trovate la classifica completa:
http://www.rsf.org/article.php3?id_article=19387
Dei sessantuno giornalisti assassinati quest’anno, dieci sono latinoamericani:
Ajuricaba Monassa (Brasile); Atilano Segundo Pérez, Milton Sánchez, Gustavo Rojas (Colombia); José Luis León (Ecuador); Eduardo Maas (Guatemala); Enrique Perea Quintanilla, Ramiro Téllez, Jaime Olvera Bravo (México); Jorge Aguirre (Venezuela).

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Tuesday, October 24, 2006

Panama raddoppia il Canale

Panama ha usato il referendum per decidere se si farà o no l’ampliamento del Canale. Chi è andato a votare domenica (l’ha fatto il 44% della popolazione, come sempre vince l’astensionismo) ha scelto il Sì, con una percentuale alta, il 78%.
A questo punto, il Congresso ha ottenuto il via libera per deliberare l’uso di 5250 milioni di dollari per rimodernare il Canale, una somma enorme che Panama non dispone e per la quale dovrà indebitarsi con vari istituti di credito per i prossimi anni.
Panama ha già un notevole debito estero ed una gestione equivocata dei fondi potrà portarla alla bancarotta. Ciò nonostante, ha potuto di più l’ottimismo. I lavori, che prevedono la costruzione di nuove chiuse e di canali di accesso, inizieranno nel 2008 e finiranno nel 2014. Per iniziare, c’è bisogno subito di più di duemila milioni di dollari. I panamensi, però, non pensano tanto alla spesa, quanto alla creazione dei posti di lavoro: oltre ai settemila che saranno occupati direttamente nella costruzione, si stima che l’indotto attrarrà altri 40.000 lavoratori.
Su La Prensa, un completo fotoreportage sulla giornata elettorale e sul Canale:
http://www.prensa.com/especiales/referendo/index.htm

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Monday, October 23, 2006

Links e interviste/10

Inizio la rubrica dei link invitandovi a leggere l’intervista di Antonio Pagliula ad Alan Woods sulla situazione in Venezuela ed in America Latina:
http://verosudamerica.blogspot.com/2006/10/intervista-ad-alan-woods.html
Woods, gallese, filologo, autore, è il fondatore dell’organizzazione “Manos fuera de Venezuela”. In quanto ad interviste anche io ne ho concessa una ad Angelo D’Addesio, sempre ovviamente sull’attualità latinoamericana. La trovate sul blog di Angelo: http://ilparoliere.ilcannocchiale.it in data 12 ottobre.
Un articolo sul Subcomandante Marcos a firma di Ettore Mo –giornalista dalla lunga traiettoria, inviato di guerra e vincitore di vari premi- è apparso sul Corriere di domenica. Nel finale, comunque, c’è uno svarione. Si parla di Fox presidente del Messico nel 1994, è più probabile che Mo volesse riferirsi a Zedillo:
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2006/10_Ottobre/21/mo.shtml
Rimaniamo in Messico. La Santa Muerte è la patrona dei delinquenti, assassini e narcotrafficanti. Su Tiempos del Mundo è stato pubblicato un reportage su questo culto che, secondo lo scrittore Homero Aridjis, sta crescendo in maniera dismisurata:
http://www.tdm.com/Perspectivas/2006/10/20061019-0005.html
Tiziano Ferro, cantante di casa nostra, un paio di mesi fa durante un’intervista alla televisione messicana affermò che non gli piacevano le ragazze messicane “perchè sono baffute” (o pelose, insomma). Il caso divenne un tormentone nazionale. Tiziano, che parla perfettamente lo spagnolo, ha perso tanti bei soldini con il suo commento. Ora, è di nuovo in tour in Messico per chiedere perdono della sua stupidità. Qualcuno lo ha perdonato, l’impressione generale è che Ferro sia un immaturo. Qui la sua intervista: http://www.univision.com/content/content.jhtml?chid=6&schid=0&secid=1611&cid=986139
A proposito di spettacolo, Peacereporter ci parla dell’Isola dei Famosi. Un tema che avrei voluto toccare anch’io, lo fa invece Stella Spinelli. Ceccherini bestemmia in diretta, ed è scandalo, ma a nessuno viene in mente di andare a vedere che cos’è l’Honduras che ospita il programma: povertà, delinquenza galoppante, analfabetismo. Machissenefrega, l’importante è lo show (e che show...): http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=6548
Infine, i murales e le pitture di Miguel Najera: http://www.miguelnajera.com/inicio.html


Sunday, October 22, 2006

Un anno di Blog Americalatina

Oggi il blog compie un anno.
Devo confessare di non aver mai fatto molto perchè il blog fosse conosciuto: all’inizio qualche mail agli amici, a qualche indirizzo di addetti ai lavori, poi la pagina è andata avanti grazie all’usuale passa parola che corre sulla rete.
L’idea iniziale del blog era quella di dare un’informazione costante, da un osservatorio privilegiato, su notizie dell’America Latina che non trovavano eco sulla stampa italiana. Alla stessa maniera, ho cercato sempre di fornire link che ampliassero l’informazione, spesso e volutamente schietta perchè l’opinione è qualcosa di personale, che si crea attraverso la conoscenza. Questa idea è stata mantenuta e, per il momento, andiamo avanti così. Scrivere sull’America Latina non è facile. Tutti si sentono esperti, magari perchè hanno fatto un mese di vacanza in Messico o in Colombia ed hanno letto García Márquez. Ma non è così semplice, ve lo dico io che ormai ci vivo da tredici anni. L’America Latina è oggi un laboratorio di idee e di tentativi politici e sociali, dove si cerca di dimostrare che un’altra via è possibile. Ogni paese, poi, racchiude svariate realtà, con le proprie marcate caratteristiche. Viene da piangere quando sui giornali italiani l’America Latina viene trattata come un solo grande calderone, dove Morales é uguale a Chávez, il Centroamerica è lo stesso che il Messico, il Brasile è un solo omogeneo paese.
Oltre all’informazione, è nostro compito scavare e scoprire le ragioni delle cause dei processi in corso in America Latina, processi che hanno radici profonde. Questo blog, rivolto soprattutto ai lettori di lingua italiana, si è proposto di essere uno strumento in più in questa ricerca.
Il ringraziamento va a tutti quanti mi seguono giornalmente e a coloro che ospitano il mio link: Bogotalia, Verosudamerica, Gennaro Carotenuto, l’Associazione Italia-Nicaragua, 2Americhe, Quinterna, Venceremos, il blog Torinoinmutande e quello peruviano di Abstracciones. Il mio ringraziamento è ancora più sincero e dovuto perchè il loro apporto è spontaneo. E ancora: Lillo Rizzo, Lulú Ortega, Salvo Anzaldi, Francesco Beghelli, Alessandro Grandi e la gente di Peacereporter, Fiorella Roncal e tanti altri.
Come avrete notato non c’è nessun link permanente su questo blog per una ragione semplice: non so come si fa a postarli. Devo confessare che ho pochissimo tempo a disposizione, per cui riesco a malapena a pubblicare la notizia del giorno. Se qualcuno, però, avesse la soluzione al mio problema lo prego già sinora di farsi avanti.
Per coloro che volessero contattarmi via mail, ricordo l’indirizzo: mauriziocampisiblog@hotmail.com

Hasta mañana.

Saturday, October 21, 2006

Una bomba per frenare tutto

Scoppia una bomba a Bogotá ed Uribe decide di sciogliere i negoziati sull’accordo umanitario con le Farc. Il saldo dell’attentato –nel cuore delle installazioni dell’Università Militare- è stato di 23 feriti, ma le ripercussioni rischiano di essere ben più gravi delle ferite fisiche. Un Uribe provato e teso ha parlato alla televisione dallo stesso luogo dei fatti, usando toni duri ed accusando tutto e tutti.
L’unica soluzione che ci rimane” ha detto “è quella dell’intervento militare per liberare gli ostaggi”.
Le prove sembrano incastrare due capi delle Farc, Jorge Briceño e Carlos Antonio Lozada, ma i familiari dei sequestrati reputano la reazione del presidente colombiano esagerata. Il processo di pace può proseguire, dicono: l’attentato sembra essere più la scusa che si stava cercando per frenare i negoziati. Falchi e colombe non esistono solo nel governo, ma anche all’interno delle Farc, ragion per cui non si può sperare che il cammino verso la pace sia una tranquilla passeggiata.
Le Farc, intanto, hanno fatto sapere attraverso un comunicato che reputano gli Stati Uniti colpevoli di quanto accaduto. La versione delle Forze armate rivoluzionarie è che è interesse di Uribe e degli alleati statunitensi chiudere ogni possibilità di dialogo.
La pagina ufficiale delle Farc:
www.farcep.org e quella dell’esercito colombiano:
http://www.ejercito.mil.co/
La commissione dell’Onu sulla Colombia: http://www.hchr.org.co/


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Friday, October 20, 2006

L'isola della discordia

L’isola Conejo è poco più di uno sperone di roccia nell’Oceano Pacifico, di fronte ad una striscia di terra a cui sono stati dati due nomi: Honduras ed El Salvador. I due paesi non si sono mai messi d’accordo sulla proprietà dell’isola che, proprio per la sua posizione, fa gola ad entrambi. Per il momento è occupata dall’Honduras, che durante la Guerra del Fútbol (quella del ’69, sorta in seguito all’incontro di calcio valevole per la qualificazione ai Mondiali del ’70) riuscì a mandarvi i suoi soldati. Da 37 anni, quindi, un manipolo dell’esercito honduregno mantiene questo caposaldo senza indietreggiare di un solo metro (anche perchè finirebbe in mare, visto che l’isola è poco più di un chilometro quadrato).
I salvadoregni, ora, hanno incluso l’isola nelle loro mappe ufficiali. Il presidente Saca ed i suoi, infatti, si sono resi conto che nel negoziato dell’Aja del 1992 che risolveva il conflitto della Guerra del Fútbol, l’isola Conejo non è stata inserita. Una mancanza che costa cara, già che ora i due paesi hanno interrotto le relazioni diplomatiche ed i progetti in comune. Corruzione, delinquenza, pandillas, povertà, analfabetismo: di problemi i due paesi ne hanno abbastanza. Non ne risolvono uno, naturalmente e per questo, attizzare il sentimento nazionalista serve per deviare l’attenzione.
Conosciamo le due fazioni in campo attraverso le loro web page: le forze armate dell’Honduras (17.000 effettivi):
http://www.ffaah.mil.hn/ e quelle del Salvador
http://www.fuerzaarmada.gob.sv/

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Wednesday, October 18, 2006

L'anima fascista dell'Argentina peronista

Sessanta feriti, botte da orbi, sprangate, risse: il trasferimento dei resti di Perón per poco non si è trasformato in una strage. La manifestazione, organizzata dalle centrali sindacali, e con la polizia lasciata ai margini, si è convertita in una battaglia campale tra gruppi rivali. Si è anche sparato, con quattro feriti ricoverati in ospedale per i colpi d’arma da fuoco. A prendersi a botte sono stati gli stessi sindacati della destra: la dialettica peronista è fatta più di bastoni che di parole.
Insomma, su Perón non si scherza. Gli argentini non crescono e rimangono attaccati al loro padre spirituale, perchè risalta l’anima fascista ed autoritaria di un popolo che preferisce guardarsi indietro piuttosto che andare avanti. Difficile pensare un altro paese dove una marcia con i resti di un ex capo di Stato venga proposta dai sindacati che ne ottengono non solo l’organizzazione, ma anche il servizio d’ordine. Niente polizia, perchè i sindacati fanno le funzioni della polizia e perchè poi, in fondo, sono la stessa cosa, stessa radice, stessa ideologia.
Il peronismo è stato sempre sinonimo di accese contese. I simpatizzanti di Perón non sono mai andati d’accordo tra loro, forse proprio a causa di una dottrina poco chiara e semplicista, basata soprattutto sul populismo e su di una politica sociale che si appoggia sull’opportunismo. I fatti di ieri sono la prova che il sentimento peronista non è morto, ma è ben vivo con tutte le sue accezioni: l’autoritarismo, il culto alla personalità, l’uso della forza. L’Argentina ha Kirchner come presidente, che coltiva vedute lungimiranti, ma ha sempre un morbo che mantiene unita una larga fascia della popolazione.
Le immagini degli scontri sono su Tele Noticias della televisione argentina:
http://www.tn.com.ar/video.asp?Id_Nota=50470

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Tuesday, October 17, 2006

Il sogno americano passa dalla guerra

Sono sempre di più gli stranieri che si arruolano nell’esercito degli Stati Uniti per ottenere la cittadinanza di questo Paese. La legge del 2002 permette a qualsiasi straniero che serva almeno per un anno, di ottenere la naturalizzazione. In grande maggioranza sono messicani quelli che cercano la fortuna nella nazione vicina. Non li fermano nè le preoccupanti notizie provenienti dalle zone di guerra, nè il fatto che sicuramente –almeno per un anno- saranno usati come carne da cannone. Attualmente, secondo i dati forniti dalla Uscis nella sua relazione annuale (è il Servizio di migrazione) sono allo studio quarantamila richieste di cittadinanza, presentate da stranieri arruolati nelle forze armate statunitensi.
Sul sito della Uscis, tutte le informazioni per diventare gringos:
http://www.uscis.gov/graphics/index.htm
La rete televisiva messicana Univisión ha aperto un interessante foro dei lettori su questo tema: http://foro.univision.com/univision/board?board.id=ciudadania

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Monday, October 16, 2006

Anche l'Ecuador va al ballottaggio

Nemmeno l’Ecuador ha deciso di andare a sinistra. Per il momento, ci sarà il ballottaggio tra Álvaro Noboa, magnate delle banane, e Rafael Correa.
Noboa, che fino a pochi giorni fa risultava addirittura terzo nei sondaggi, da anni insegue la presidenza ecuadoriana. Su Correa non si è risparmiato: “Correa è un amico dei terrorisiti, un comunista, un dittatore con l’immagine di Cuba in mente... la mia proposta è che l’Ecuador sia come la Spagna, il Cile, l’Italia paesi dove ci sono libertà e democrazia”. Magari bisognerà spiegargli che la democrazia italiana è un po’ sputtanata, però contento lui... Noboa, d’altronde, è l’uomo più ricco dell’Ecuador e deve essere ben felice di poter instaurare una repubblica alla Berlusconi nel cuore del Sudamerica.
Correa ha invece un diavolo per capello. Le inchieste lo davano vincente, e deve accontentarsi di un ballottaggio che lo vede perdente in partenza. Appena chiusi i seggi ha iniziato a denunciare brogli. A spaventare l’elettorato ce ne ha messo del suo: proprio il giorno prima delle elezioni ha dichiarato che –come Evo Morales- avrebbe rivisto i contratti con le multinazionali del petrolio.
L’appuntamento ora è per il 26 novembre. Su La Hora, le dichiarazioni audio e video dei candidati:
http://www.lahora.com.ec/frontEnd/main.php?idRegional=1
Il sito del Tribunale elettorale dell’Ecuador:
http://www.tse.gov.ec/

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Sunday, October 15, 2006

La lucida follia di Sendero Luminoso

Abimael Guzmán è stato infine condannato all’ergastolo. Con lui ha ricevuto la stessa condanna tutta la cupola di Sendero Luminoso. La sentenza è arrivata venerdì sera, al termine di quasi un anno di dibattimento.
Pubblico qui uno dei miei lavori su Sendero e il Comandante Gonzalo:

La storia di Sendero Luminoso è stata la storia di una follia. Una lucida pazzia, nata e cresciuta nella mente di un professore di filosofia di provincia e alimentata, come una pianta malata, nelle aule scolastiche, nelle periferie disagiate, nelle campagne arretrate. Il professore in questione si chiama Abimael Guzmán Reynoso, nato a Mollendo, un piccolo paesino della regione di Arequipa nel dicembre del 1934. Se Lima è la capitale del Perù, Arequipa per anni ne diventa l’alter ego intellettuale, centro di idee e focolaio di movimenti. Quello della sierra è un altro mondo, quasi un’altra nazione. Lontana quasi mille chilometri dalla capitale, Arequipa –la città bianca- dà forma, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, ad una generazione critica, costantemente alla ricerca di formule differenti per un Perù che vuole difendere i valori della democrazia. Per le sue vie transitano personaggi destinati a diventare notizia: lo scrittore Mario Vargas Llosa, lo sgherro Vladimiro Montesinos, l’economista Hernando De Soto sono figli di questa città.
Guzmán da Mollendo si trasferisce sin da bambino ad Arequipa, per frequentare il collegio La Salle, retto dai religiosi delle scuole cristiane. È rimasto orfano di madre a cinque anni ed il padre, che si è risposato due volte, lo manda prima al Callao quindi, a partire dal 1947 nel collegio di Arequipa. A ventotto anni è già professore ed ha lasciato per sempre la natura dei suoi studi di stampo cattolico per approfondire l’indagine su Hegel e Marx. Il suo primo matrimonio è del 1964, quando si sposa con Augusta La Torre, figlia di un dirigente comunista. Chiamato all’Università San Cristóbal di Huamanga viene colpito dalla personalità del rettore, Efraín Morote Best, un antropologo che lo spinge ad apprendere il quechua e a partecipare attivamente nella vita politica. L’opposizione al regime, l’attrazione fatale del maoismo, la questione indigena collimano nella mente di Guzmán in un’unica teoria. Ci vogliono anni per unire i vari tasselli, ma alla fine il professore crede fermamente che per ridare speranza al Perù c’è bisogno di una rivoluzione. I militari, intanto, fanno quello che vogliono. Depongono il governo democraticamente eletto di Fernando Belaunde e insediano al suo posto Juan Velasco Alvarado, che dà vita ad un programma riformista fortemente contrastato. Guzmán conosce per la prima volta la prigione. È infatti tra i membri del Partito Comunista che si oppongono non solo al regime, ma anche ad un ritorno alla legalità democratica. Durante gli anni a Huamanga, Guzmán è entrato in stretto contatto con la realtà delle comunità indigene locali, arrivando anche ad apprendere la loro lingua, il quechua. Conosce così da vicino lo sfruttamento dei contadini, abbandonati nella loro ignoranza e povertà, tema già abbondatemente trattato da Carlos María Mariátegui, che negli anni Trenta aveva fondato il Partito comunista peruviano. Con gli anni Sessanta l’esperienza cinese aveva cominciato ad attrarre una nuova generazione di intellettuali delle università di Ayacucho e di Huamanga. In seguito alle discordanze, il partito si divide in due, raccogliendo da una parte i filocinesi e dall’altra i seguaci delle teorie di Mariátegui. Guzmán vede nella situazione degli indigeni quechua la stessa sorte dei contadini cinesi, liberati dal loro stato di asservimento con la rivoluzione maoista. Un breve viaggio in Cina, nel 1965, lo convince che quella della rivoluzone è la via da seguire. Di ritorno in Perú, il già diviso Partito comunista subisce ulteriori scissioni, tra cui quella promossa da Guzmán. Quando viene rimesso in libertà Guzmán, a cui è stata revocata l’abilitazione all’insegnamento, decide di entrare nella clandestinità. È il 1975, ed il futuro presidente Gonzalo –come si farà chiamare dai suoi proseliti- fonda il Partido Comunista del Sendero Luminoso, facendo riferimento ad una citazione presa a forza dal saggio fondamentale della sinistra peruviana, i “Siete ensayos de interpretación de la realidad peruana”, di Mariátegui. In esso, il marxismo veniva appunto segnalato come il sentiero luminoso, la via da seguire. Il rigido pensiero ideologico, la convinzione di essere portatore della verità assoluta, la cieca obbedienza al leader sono solo alcune delle caratteristiche di Sendero Luminoso. Guzmán rielabora il pensiero maoista presentando sè stesso come il centro del quarto stadio di sviluppo del marxismo che avrebbe conquistato il mondo.
Ad aiutarlo ha dalla sua una veemente e fluida oratoria, grazie alla quale convince centinaia di studenti delle università peruviane: dalle iniziali di Ayacucho e Huamanga, le cellule senderiste passano ad essere presenti negli atenei di Tacna, Huanuco e infine di Lima. La carriera di sobillatore sembra avere però vita corta. Il servizio segreto ne segue i movimenti e nel 1979 lo arresta. Incredibilmente, sono alcuni alti ranghi dell’esercito a garantire a Guzmán la scarcerazione, aprendo di fatto la stagione del terrore. Sendero Luminoso decide infatti, nel suo IX congresso tenutosi in forma clandestina ad Ayacucho, di passare alla lotta armata. Ai simpatizzanti viene ordinato di trasferirsi nelle remote zone della sierra per iniziare la sollevazione. Il Perú, che sta tornando alla democrazia dopo le dittature di Velasco e di Bermúdez, invece di essere pronto per la rinascita è, a sua insaputa, sul bordo dell’abisso.
I primi a farne le spese sono gli animali. Sendero decide infatti di fare la sua apparizione con un macabro rituale. Nelle principali città peruviane decine di cani randagi appaiono strangolati ed impiccati ai pali della luce: è il segnale che indica ai migliaia di simpatizzanti il passaggio all’azione. Il gesto proviene, neanche a dirlo, dalla Cina ed il suo significato, l’impiccagione dei cani, è che il tiranno deve morire. Alcuni portano al collo una scritta per il momento ancora misteriosa ai più: “Viva Gonzalo!”. Passano poche settimane e questa volta gli animali si trasformano in bombe. Liberati nei mercati con addosso esplosivo, cani, asini, galline esplodono davanti alle stazioni di polizia, nel mezzo di consigli comunali, nei mercati, causando il panico tra la gente. Ufficialmente, la rivoluzione di Sendero Luminoso inizia, in questa maniera, il 17 maggio 1980.
Conoscendo la storia e la psicologia delle genti di discendenza inca, Abimael Guzmán predica nelle valli presentandosi come l’incarnazione di Incarri, il sole che nella mitologia incaica torna per ridare speranza ed unità alla nazione Quechua. Sono in molti a seguirlo, convinti che la rivoluzione, per quanto sanguinosa, sia un passaggio necessario per creare una società migliore. A credergli è la gente comune, contadini, disoccupati, operai, ma anche tanti intellettuali, professori, gente di cultura, professionisti solo in apparenza indifferenti alla politica e ai cambiamenti radicali. Guzmán li attrae come una forza magnetica e li adopera per entrare in ogni strato della società peruviana: “Gli occhi di Gonzalo sono dappertutto”,come si scrive sui muri, diventa non solo un motto, ma anche un pericoloso avvertimento. Per chi sgarra, infatti, c’è solo una condanna: a morte.
Per chi fa la scelta di seguire Sendero Luminoso non c’è infatti marcia indietro. Per i pentiti c’è in serbo una brutta fine, sia che siano in carcere, protetti dalla polizia o fuggitivi. Proprio perchè gli occhi di Gonzalo sono dappertutto.
La rivoluzione dei maoisti peruviani comincia così, con il massacro di animali inermi. È solo questione di tempo, pochi mesi in realtà, perchè a cadere siano le persone. Nel 1981 la sierra non è già più un posto sicuro. Ci sono i primi morti ammazzati e le prime vere azioni militari di Sendero, come l’assalto al carcere di Huamanga o la presa della stazione di polizia di Vilcashuamán, che si consumano senza una vera reazione da parte delle autorità, che appaiono stordite, impreparate. Lo Stato è debole e Gonzalo lo sa benissimo quando decide di alzare ancora di più il tiro per colpire il vice prefetto di Huamanga, César del Solar. Il presidente Belaunde, il primo rappresentante civile a coprire questo incarico dopo anni di dittature militari (e che si riprende un potere che gli corrispondeva dal 1968, anno in cui venne deposto da un colpo di Stato), alla fine del 1982 decide finalmente di porre sotto la giurisdizione delle forze armate i distretti dove è più viva l’azione di Sendero, quelli di Ayacucho e Andahuaylas. Quando comincia il 1983, Ayacucho è una città blindata. L’esercito, mandato per dare un segnale di forza, ma anche di fiducia e di speranza alla popolazione, si trasforma ben presto in un agente in più della spirale della violenza. A farne le spese sono proprio i civili, su cui cade indiscriminatamente il sospetto di appoggiare le cellule senderiste. Sotto accusa sono soprattutto gli studenti, i contadini, gli operai: l’esercito colpisce alla cieca e, di rimando, i rivoluzionari rispondono con tutto il loro feroce fanatismo. Sono giovanissimi e spietati, imbevuti di una ideologia dove non c’è spazio per la pietà. Entrano nei villaggi della sierra cercando appoggio logistico e vettovagliamento e quando non lo trovano uccidono. L’eccidio di Lucanamarca, dell’aprile 1983, nè è un esempio. Quando i loro leader vengono cacciati dal villaggio, i senderisti si vendicano entrando di notte nelle case e massacrando a colpi di machete 69 tra uomini, donne e bambini. Sono queste quelle che il presidente Gonzalo chiama “zone liberate”, dove vorrebbe instituire la sua amministrazione e la sua giustizia, e dove invece la gente si ribella. Come risposta, l’esercito colpisce anche lui nel mucchio. Le comunità indigene sospettate di connivenza vengono rase al suolo e gli abitanti fatti sparire. La prima fossa comune di desaparecidos viene scoperta a Huanta, nell’agosto del 1984 con cinquanta corpi. I civili si trovano nel mezzo di una follia. Non sanno con chi stare e, anche se non prendono posizione, rischiano lo stesso di morire. La violenza diventa cieca e non guarda più in faccia nessuno. Quando un gruppo di sette giornalisti entra nella comunità andina di Uchuraccay per stabilire le responsabilità di una strage avvenuta poco tempo prima, viene massacrato dalla popolazione isterica. Uno di loro, il fotografo Willy Retto, in un documento impressionante scatta fino all’ultimo con la sua macchina fotografica, mostrando l’incontro con gli abitanti del villaggio, i primi fucili che compaiono e, infine, le esecuzioni. La stessa sorte soffrono a Callqui sei pastori evangelici, eliminati dagli squadroni dell’esercito che li reputa fiancheggiatori dei senderisti. Sono i casi più eclatanti, ma la spirale è continua, cieca e non si ferma.
Uchuraccay dimostra la grande frattura apertasi nel seno della società. Forze politiche, magistrati, esercito rivelano tutto il loro contrasto e la divisione con la società civile durante le indagini svolte dalla Commissione che era stata formata per stabilire la verità sulla strage. Lo scrittore Mario Vargas Llosa, che la presiedeva, viene chiamato dal Tribunale di Ayacucho, fortemente influenzato dall’esercito, e costretto a dichiarare per quindici ore di seguito sempre in piedi, in un’udienza pubblica, continuamente disturbata da interruzioni e provocazioni.
Sendero, intanto continua a impartire la lezione del terrore. Come si addice all’insegnamento spietato di Abimael Guzmán, la rivoluzione è cruenta e sanguinosa. Proprio il sangue e la ricerca per il gesto sadico e ad effetto, caratterizzano le azioni di Sendero. Ci sono decapitazioni pubbliche, impiccagioni ai pali della luce, omicidi in teatro, sacerdoti squartati, lingue tagliate, massacri a colpi di machete. Nel vocabolario del presidente Gonzalo, la pietà non esiste. Le popolazioni della sierra, ridotte allo stremo, adottano per rappresaglia gli stessi sistemi: quando un senderista viene catturato, è bastonato a morte e poi sepolto verticalmente, ad indicare lo spregio per il cadavere e per l’anima che, in quella posizione, non troverà mai pace nemmeno nell’aldilà.
È il 1985 quando il conflitto entra ormai nella capitale. Auto bomba esplodono nei parcheggi di Lima, mentre a zittire ogni possibilità di dialogo politico, viene in maggio l’assassinio del deputato dell’Apra, Luis Aguilar Cajahuamán. L’Apra, partito storico della socialdemocrazia latinoamericana, aveva provato in tutti i modi di instaurare un colloquio con i leader di Sendero. L’uccisione del deputato rimarca come, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l’unica lingua capace di parlare Guzmán era quella delle armi. Nonostante tutto, Alan García, eletto presidente proprio quell’anno, nell’agosto crea una Commissione per la pace, con l’arduo compito non solo di cercare dei canali preferenziali per trattare con Sendero, ma anche con quello di limitare gli eccessi delle forze armate. Un altro eccidio, quello di Accomarca, aveva infatti scosso l’opinione pubblica per il massacro indiscriminato di sessantanove contadini inermi.
La pace rimane però solo una parola. Un anno più tardi, nel giugno del 1986, approfittando del XVII Congresso dell’Internazionale Socialista che si teneva a Lima e per la prima volta in un paese latinoamericano, i carcerati di Sendero si ammutinano. Vogliono richiamare in questa maniera l’attenzione del mondo su come vengono trattati e cercare approvazione dalla comunità internazionale per quella che ritengono la loro lecita rivoluzione.
Quando scoppia la rivolta, García delega il Consiglio Nazionale di Difesa di attendere la situazione. Quello che ne risulta è un massacro: 126 carcerati vengono uccisi nella prigione di Lurigancho, 138 in quella del Frontón e due in quella di Santa Bárbara. Il governo disconosce i fatti, dice García, anche se alla fine è la Guardia Repubblicana, quella più vicina al presidente, ad essere incriminata del fatto. Non c’è più tempo per una marcia indietro: la Commissione per la pace si dimette in blocco e a parlare, d’ora in avanti, saranno esclusivamente i fatti d’armi. Successivamente, il Parlamento approva una legge simile a quella che in Colombia ed in Guatemala diedero vita ai gruppi controrivoluzionari. Si armano i contadini perchè possano difendersi e, di fatto, sia dà via libera alle uccisioni indiscriminate dove anche solo il sospetto o le vendette personali sono sufficienti indizi per eliminare persone innocenti.
D’ora in avanti, è guerra aperta. Le vittime si contano nell’ordine delle migliaia: alla fine, secondo la ricostruzione della Commissione per la verità e la riconciliazione, che ha terminato i suoi lavori nel 2003, sono quasi settantamila; 4644 le fosse comuni ritrovate. Ma l’eredità lasciata da Sendero Luminoso e dalla repressione attuata dalle Forze Armate è stata quella di aver militarizzato la società e di aver permesso l’ascesa di un nuovo dittatore, questa volta mascherato dietro un supposto potere civile, Alberto Fujimori.
Sendero, intanto, è per molti versi un’incognita. I suoi leader non cercano popolarità: non appaiono sui giornali, non rilasciano interviste, non hanno facce e nemmeno nomi reali. Li si conosce con i loro soprannomi di battaglia e sono, insomma, l’espressione della più completa ortodossia. Per rendere pubblici i loro proclami, utilizzano metodi ritenuti arcaici nell’epoca delle tecnologie informatiche, come il volantinaggio, il passa parola o, nel peggiore dei casi, il cartello che veniva abbandonato sulla vittima di turno. Sono contro tutto e tutti. Tacciano i giornali e le televisioni di essere espressione della borghesia e, per questa ragione, non li contattano per divulgare appelli o interviste. Ma l’ortodossia del presidente Gonzalo va ben oltre il ripudio dell’informazione. Fedele alla linea di un comunismo delle origini, disegnato sul modello della Cina maoista, taccia di traditori l’Unione Sovietica, con i suoi satelliti latinoamericani –Cuba e Nicaragua-, perchè colpevoli di rappresentare l’altro imperialismo; e la Cina di Deng Xiao Ping per avere cancellato la rivoluzione di Mao. Guzmán, mentre Urss e Cina si aprono timidamente al mondo, va in senso diametralmente opposto: vuole militarizzare tutti i partiti comunisti del mondo, perchè è convinto che il marxismo sia arrivato al punto finale della sua evoluzione. Solo armando i ranghi di partito può essere garantita la dittatura del proletariato.
Il pensiero di Gonzalo si muove nella più completa ortodossia. La rivoluzione senderista nasce dall’unione tra contadini e operai, dove questi ultimi avrebbero ricoperto il ruolo di classe dirigente ed i primi, la forza motrice. La ribellione, nata nelle campagne e negli altopiani della sierra, si estende alle città, al ritmo di esplosioni e di omicidi. Se la provincia è presa dall’anarchia, la capitale rischia ormai anch’essa di soccombere. I così chiamati “pueblos nuevos” che circondano Lima –quartieri sorti dal nulla e nel nulla, privi di ogni pur minimo servizio, dove manca di tutto, dall’acqua all’elettricità, dalla raccolta rifiuti alle scuole- pullulano di cellule di Sendero, che trova nel malcontento il terreno fertile per propagare le sue idee di rivoluzione. Ma, come era successo per Ayacucho e Huamanga, sono le università il vero fulcro delle attività senderiste. Nel maggio del 1988 l’Università San Marcos, tra le più prestigiose del paese, viene occupata dagli studenti. Anche questi sono divisi: da una parte ci sono quelli che protestano per gli eccidi compiuti dall’esercito nelle comunità contadine delle Ande; dall’altra i reclutatori di Sendero che trasformano le aule in santuari del credo senderista. La polizia interviene e negli scontri viene ucciso uno studente, Javier Arrasco. Lima, come cinque anni prima era toccato ad Ayacucho, diventa una città blindata. Il rischio attentati è altissimo, mentre continuano a cadere rappresentanti del potere civile, nel tentativo di indebolire la struttura dello Stato.
Eppure, quando la strategia di Abimael Guzmán sembra infine premiare Sendero, le cose cominciano a cambiare. Nel giugno del 1988 viene arrestato uno dei fondatori di Sendero, Osmán Morote e poco dopo, con l’assassinio del suo avvocato, Manuel Febres Flores, fanno la violenta apparizione gli squadroni della morte. Tutti contro tutti. Questa sembra essere la parola d’ordine nel Perú della fine degli anni Ottanta: si ammazzano contadini (la strage di Cayara, 31 morti); si eliminano giornalisti (Hugo Bustíos Saavedra, corrispondente di Caretas da Ayacucho); si sviluppano vere battaglie campali come a Jauja (59 morti tra l’MRTA –l’altro gruppo sovversivo- e una decina di soldati); si uccidono professori universitari (l’ingegnere Abelardo Ludeña Luque), ex ministri (Orestes Rodríguez Campos, ucciso assieme a suo figlio ed Enrique López), e sacerdoti (don Víctor Acuña); si fanno esplodere autobus (5 morti tra la guardia presidenziale); si attaccano villaggi indifesi (Cochas, Pampachancha).
L’elezione di Fujimori a presidente, invece di allentare la tensione, fa di Lima un campo di battaglia. “El Chino” usa la mano dura e gli squadroni della morte –con il beneplacito del servizio di intelligenza diretto da Montesinos- agiscono indisturbati nella stessa città. Paradossalmente sarà proprio il 1992, l’anno della cattura di Guzmán, il più tragico. Gli ultimi colpi di Sendero sono rivolti contro attivisti dei diritti umani, sindacalisti, contadini, operai, giudici di pace nel tentativo di minare le istanze democratiche della società civile che finalmente insorgeva per chiedere la pacificazione del conflitto. Tra gli ultimi a cadere, nel febbraio 1992, c’è María Elena Moyano, attivista premiata con il Principe di Asturie in Spagna per il suo lavoro nelle comunità femminili dei pueblos nuevos. La folla di trecentomila persone che accompagna il suo funerale è l’espressione definitiva del ripudio popolare per la follia visionaria di Sendero Luminoso che, lungi dall’intendere il solco ormai tracciato a dividerlo dalla base popolare, compie in luglio l’attentato più efferato. Un camion con 500 chili di dinamite scoppia nell’elegante quartiere di Miraflores, di fronte a cinema, ristoranti e palazzi di abitazione ricolmi di gente. I morti sono venticinque, i feriti quasi 150. Il 12 settembre, le truppe speciali fanno irruzione in una casa di Surco. Il presidente Gonzalo è seduto alla scrivania. Quando gli agenti irrompono nella stanza la sua compagna, Elena Iparraguirre, gli fa da scudo. Abimael Guzmán in un primo momento non capisce cosa stia succedendo e chiede chi siano gli intrusi. Si rende conto che la sua guerra è finita quando Antonio Ketín Vidal, comandante delle forze speciali, gli legge i diritti. Da mesi i servizi segreti vigilavano la casa di Surco, proprietà di una ballerina, Maritza Garrido Lecca. Guzmán ne aveva fatto il suo quartiere generale, da dove non usciva mai, sapendosi braccato. Gli ordini che mandava, uscivano all’esterno grazie alla ballerina.
Finita la caccia, si apre il circo.
La prima apparizione televisiva del comandante Gonzalo, venerato come un semidio dai suoi seguaci, è emblematica e ricorda, in un certo senso –senza però le lugubri atmosfere cinematografiche- la prigione preparata in hotel all’Hannibal Lechter del primo episodio del “Silenzio degli innocenti”. In un ampio e spoglio cortile carcerario è stata allestita una gabbia. È tenuta nascosta da una serie di teloni che vengono calati con effetto scenico quando i discorsi delle autorità sono terminati. All’interno c’è Abimael Guzmán, in tenuta da carcerato –maglia e pantaloni a strisce orizzontali- che si aggira come una belva ed impreca contro tutto e tutti. L’intenzione è quella di umiliarlo, bestia feroce rinchiusa in gabbia, ed invece Guzmán approfitta della presenza delle telecamere per inveire, reclamare, lanciare proclami e istigare i suoi a continuare nella rivoluzione. Come conseguenza viene inviato nel carcere di San Lorenzo, un arido sperone di roccia di fronte al Callao, il porto di Lima.
La prigione e gli anni lo ammansano. Nel tentativo di salvare il salvabile, Guzmán già nel 1993 cambia idea e chiede ai suoi di avviare negoziazioni di pace con il governo di Fujimori e di abbandonare la lotta armata. Sa che per lui si apre il panorama della prigione a vita e cerca di trovare una soluzione politica, ordinando ai suoi la ritirata. C’è però poco da salvare. Nel 1994 sono almeno 6000 i guerriglieri che hanno deposto le armi, anche se colonne di irriducibili si asserragliano nelle zone più impenetrabili del Paese. La legge d’Amnistia giunge puntuale nel 1995, nel chiaro tentativo di Fujimori di lasciarsi alle spalle il più in fretta possibile la stagione del terrore. La legge, approvata soprattutto per cancellare i misfatti perpetrati dall’esercito, non piace a nessuno: l’87% della popolazione, secondo i sondaggi, la disapprova. Nonostante l’opposizione, si va avanti. Bisogna voltare pagina, gli affari di Fujimori, l’immagine di un Perú vincente, da esportazione, lo reclamano. La soluzione politica paventata da Guzmán svanisce per sempre.
Roso dalla psoriasi, rinchiuso come Montecristo in uno sperone di roccia nell’oceano, Guzmán si avvia al suo quindicesimo anno di carcere. L’unica liberazione la riceverà dalla morte. Eppure, Sendero vive. Il suo respiro è esile, ma lo si può sentire ancora nelle valli della coca: lo Huallaga, l’Ene, l’Apurímac ed ancora nelle parti più remote delle province di Huancayo e di Ayacucho. Il comandante Artemio (al secolo Filomeno Cerrón Cardos) sopravvive con i suoi uomini –un’ottantina, forse di più- nella foresta, ricavando dai trafficanti di droga una tassa in cambio di protezione. Il Perú è un paese grande sette volte l’Italia, con cime inviolabili e la foresta amazzonica a lambire immense pianure di acquitrini e desolazione. Un posto dove nascondersi Sendero lo troverà sempre, in attesa di una nuova rivoluzione. Perchè il comandante Gonzalo, nell’isolamento della sua cella, sa che anche se non vedrà mai più la luce del sole, settantamila morti non sono stati abbastanza.

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Saturday, October 14, 2006

L'acqua del vicino è sempre più buona

L’anno scorso di questi tempi pubblicavo su Diario un articolo sulla presenza dei marines Usa in Paraguay. Una presenza strana, scrivevo, che probabilmente nascondeva interessi particolari, il primo dei quali era la richiesta da parte del governo statunitense di dichiarare patrimonio dell’umanità l’Acuifero Guaraní, la seconda fonte di acqua dolce più grande del mondo. Il Guaraní sorge in gran parte in Paraguay ed una dichiarazione di quel tipo significherebbe escluderlo dal controllo diretto di questo Paese.
Ora, il ministro argentino dell’Ambiente, Luis D’Elia, rivela che è la stessa famiglia Bush che sta comperando i terreni che sorgono sopra il Guaraní (le fonti sono in gran parte sotterranee). In totale sarebbero 40.000 gli ettari acquistati dai Bush: la settimana scorsa Jenna, una delle figlie di George jr, è giunta in Paraguay per osservare da vicino i nuovi possedimenti famigliari. La presenza di Jenna non è sfuggita a nessuno: ha cenato con il presidente Duarte e poi è partita per il Chaco accompagnata da sei 4x4 piene di agenti dell’Fbi.
Insomma, i Bush hanno fiutato l’affare del futuro, quello dell’acqua e mettono le mani avanti. D’altronde è pratica di questa famiglia usare la politica per aumentare il proprio patrimonio. Dopo le guerre per il petrolio, verranno le guerre per l’acqua: chissà che Jenna tra una ventina d’anni non diventi la prima presidente degli Usa, quella a cui toccherà dichiarare la guerra al Paraguay.

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Friday, October 13, 2006

El día de la raza

El día de la raza. Così l’hanno chiamato qualche anno fa, dopo le proteste dei popoli autoctoni sulla legittimità della scoperta dell’America. Dalla festività dal sapore colonialista alla celebrazione dell’incontro tra le culture, il giorno delle razze non genera entusiasmi. Colombo, poi, è un imbarazzo per quasi tutti. Gli indigeni lo insultano e lo processano virtualmente (condannandolo a morte); i più lo ignorano, consapevoli che con lui sono iniziati tutti i problemi. Gli unici a ritrovarsi attorno alle statue del navigatore genovese, sono gli italiani in terra americana. Per le varie amministrazioni comunali, avere una statua di Colombo è invece un problema: in questa ricorrenza, il minimo che possa capitare è che venga pitturata.
Il 12 ottobre è una festività che non decolla, dove le culture invece di incontrarsi e trovarsi si accusano dei genocidi passati e degli scontri futuri. A crescere, in questa data, è il sentimento indigenista, che ritrova un orgoglio di razza che sembrava avesse perduto. Occhio ai falsi moralismi, però. Evo Morales ha detto che da disgrazia il 12 ottobre è diventato simbolo di liberazione e fin qui va bene, ma poi non ci sarebbe stato male un invito all’incontro e alla convivenza pacifica. Niente da fare. Morales ha problemi fino al collo dopo la strage tra i minatori e deve recuperare in immagine tra i suoi. Quindi i bianchi sono i cattivi e gli indigeni sono tutti buoni.
Chávez, l’altro presidente indigenista, già da quattro anni ha cambiato per decreto questo giorno dichiarandolo festività della resistenza indigena. Un po’ ovunque in America Latina, il 12 ottobre ha quindi assunto connotati speciali, dove non ci si incontra per niente e, anzi, si clama per ampiare le distanze, senza renderci conto che qui ci viviamo e ci dovremo vivere tutti insieme neri, bianchi, rossi, indigeni, meticci, creoli, gialli.
Eduardo Galeano ha scritto un fondo su Crónica Digital:
http://www.cronicadigital.cl/modules.php?name=News&file=article&sid=5644&mode=thread&order=0&thold=0

Thursday, October 12, 2006

Chávez: dal rosso al blu

Dal rosso al blu. Questa la decisione di Hugo Chávez che, in vista delle elezioni di dicembre, ha deciso di cambiare colore. Finora ci eravamo abituati a vederlo con la camicia rossa, novello garibaldino, gesticolare e arringare la folla nelle sue oceaniche trasmissioni di Aló presidente o nel ricevere capi di Stato. Ora, viene la svolta, a ridimensionare l’immagine da duro che circondava la figura del presidente venezuelano. Secondo i suoi consiglieri, il blu suggerisce negli interlocutori sentimenti positivi, il rosso aggressività. Per questo, la campagna elettorale è centrata sul tema dell’amore: lo slogan scelto è quello di “Necesito tu voto, tu voto por amor”, ho bisogno del tuo voto, il tuo voto per amore. Sembra il ritornello di una canzone del festival di Sanremo, ma di questi tempi quando si comprano milioni di dollari in armi e ci si allea con l’Iran, è salutare un buon cambiamento di immagine. Non ci sono dubbi, però, che sotto la camicia blu, Chávez continuerà ad indossare la canottiera rossa.
Questo il messaggio completo –mia la traduzione- della pagina pubblicitaria apparsa ieri sui principali giornali venezuelani: “Ho sempre fatto tutto per amore. Per amore all’albero e al fiume sono diventato pittore. Per amore al sapere, allo studio ho lasciato la mia città. Per amore allo sport sono diventato giocatore di baseball. Per amore alla patria sono diventato soldato. Per amore al popolo sono diventato Presidente e voi mi avete fatto Presidente. C’è ancora molto fare, ho bisogno di più tempo. Ho bisogno del tuo voto, il tuo voto per amore”.
Cosa non si fa per un voto.

Wednesday, October 11, 2006

Narco, politica e parenti

George Nayor è un narcotrafficante. Di lui, in questi giorni, si è detto e scritto di tutto soprattutto perchè è finito in galera, spedito negli Stati Uniti dalla solerte polizia salvadoregna, che lo ha accusato di un complotto per assassinare il presidente di questo paese, Tony Saca. La vicenda è peculiare, perchè fotografa i dettagli della collusione tra potere e politica.
Nayor è cubano, ma grazie alle solite amicizie, ha ottenuto il passaporto honduregno. Per anni si è mosso tra la Colombia, l’America Centrale e gli Stati Uniti, praticamente indisturbato. Esponente del cartello di Medellín, ha trovato naturalmente il tempo di fare buoni amici e tanti nemici. Uno di questi, il presidente del Salvador, Saca, lo ha infine fatto mettere in prigione prima che Nayor lo togliesse di mezzo con un attentato in puro stile hollywoodiano: un missile terra aria contro l’elicottero presidenziale.
Ora, dalle indagini risulta che uno degli amici di Nayor sia il fratello di Kevin Casas, il vicepresidente della Costa Rica, uomo scelto da Oscar Arias per le sue doti morali. Moralità alquanto dubbia, invece, quella di Ciro Casas, che di mestiere fa l’avvocato ed avrebbe aiutato Nayor a lavare vari milioni di dollari in Costa Rica.
È mio fratello, ma non conosco i suoi affari” ha detto il vicepresidente. Durante la conferenza stampa un giornalista ha chiesto se Nayor avesse finanziato parte della campagna elettorale del presidente Arias. Casas, affatto turbato, ha replicato: “Mi sembra che ogni giornalista abbia diritto ad una sola domanda: per Lei, questa sarebbe la seconda”.
Se Casas non risponde ad una domanda così diretta, cosa dobbiamo pensare? Quello che vogliamo, naturalmente. Insomma, così vanno le cose nel Centroamerica del nuovo millennio: non ci saranno le guerre, ma c’è poco da stare allegri.

Tuesday, October 10, 2006

L'indigenismo dimenticato di Manuel Scorza

Tra le mie letture giovanili ho ritrovato in questi giorni “La storia di Garabombo, l’invisibile”, romanzo di Manuel Scorza, scrittore peruviano. La sua prosa è forte e sociale e denuncia la situazione di arretratezza dei contadini della sierra del Perù. In epoca di rinascita dell’indigenismo risulta strano come Scorza sia stato dimenticato giacchè, in un certo senso, aveva proseguito l’opera di Jose María Arguedas nel tentativo di dare una voce ed una letteratura alle minoranze andine.
Aveva pagato sulla propria pelle le sue prese di posizione con due esili forzati, che lo avevano portato a Madrid e a diverse visite italiane. Al realismo magico che andava di moda a quei tempi –eravamo negli anni Settanta- contrapponeva la realtà, che era desolazione, abbandono, povertà. Problemi veri, seri, che rimanevano irrisolti e che nessun realismo magico poteva togliere alla gente della sierra. Anche Garabombo, nel suo cammino all'invisibilità, doveva provare la durezza della prigione.
L’opera di Scorza è andata attenuandosi non solo in Europa, ma anche nelle Americhe, fatto dovuto, forse, alla prematura morte dello scrittore avvenuta in un incidente aereo.
Per conoscere meglio Manuel Scorza su internet c’è un’intervista inedita data a José Julio Perlado:
http://www.ucm.es/info/especulo/numero7/scorza.htm
Feltrinelli continua, per fortuna, a pubblicare l’opera di Scorza in italiano. Qui il catalogo:
http://www.feltrinelli.it/SchedaAutore?id_autore=255710

Monday, October 09, 2006

Links e interviste/9

Un’intervista a Fernando Botero, il celebre pittore colombiano, è disponibile su Panorama Digital alla vigilia dell’inaugurazione a New York della sua mostra sulle torture di Abu Ghraib: http://www.panodi.com/panodi/250358.html
El Ciudadano, rivista cilena, pubblica un’intervista ad Augusto Pinochet per dimostrare che il gran vecchio “non ci è, ma ci fa”. Nel testo Pincohet piange la solita miseria: non ha mai fatto torturare o sparire nessuno, non ha mai rubato soldi e ribadisce che il golpe del 1973 fu necessario: http://www.elciudadano.cl/2006/10/07/entrevista-inedita-con-el-exdictador/ Però parla, e questo significa che non è poi così demente come vuole far credere.
Su “La Razón”, quotidiano boliviano, è uscito un interessante reportage su Villagrande, la cittadina dove venne trasportato il corpo di Che Guevara, dopo essere stato ucciso. La località vive oggi di un turismo tutto particolare, dovuto appunto alle ultime ore del rivoluzionario argentino. Nell’articolo parla anche René Cadima, che oggi ha 87 anni e che fu la persona che fotografò il cadavere di Che Guevara.
http://www.la-razon.com/versiones/20061008_005668/nota_277_341628.htm
Su La Nación, Costa Rica, lo scrittore nicaraguense Sergio Ramírez dà la sua versione sulle imminenti elezioni in Nicaragua: http://www.nacion.com/ln_ee/2006/octubre/08/opinion851843.html
La pagina di Sergio: http://www.sergioramirez.org.ni/ con tutte le sue pubblicazioni.
Sui blog amici o affini c’è sempre molta carne al fuoco. Verosudamerica pubblica il video dei baby narcotrafficanti in Perù:
http://verosudamerica.blogspot.com
Cronache da Lima, Perù, ed altro sul blog di Fiorella Roncal su: http://www.abstracciones.blogspot.com/
Due ringraziamenti: uno a Gennaro Carotenuto, che mi linka tra i blog consigliati nel suo seguitissimo sito (http://www.gennarocarotenuto.it/dblog/storico.asp) e l’altro all’amico venezuelano Bruno Spelorzi che mi recensisce super bene http://brunospelorzisilva.blogspot.com/. Solo una domanda per lui: perchè tanto accanimento contro l’Inter?.

Sunday, October 08, 2006

L'Ecuador alla volata finale

L’anno elettorale dell’America Latina giunge al termine, ma mancano ancora quattro appuntamenti: Nicaragua, Venezuela, il ballottaggio in Brasile e l’Ecuador. Di quest’ultimo paese si parla sempre poco, forse perchè ritenuto di poco peso nel quadro dello scacchiere continentale. Immerso in continui cambiamenti di governo, l’Ecuador è però il primo esportatore mondiale di banane e vanta una considerevole riserva petrolifera che viene indirizzata quasi completamente negli Stati Uniti. Sulla sua frontiera di nord est premono le Farc e non sono mancati gli sconfinamenti con le reciproche accuse con la Colombia. La destituzione di Lucio Rodríguez, l’ex colonnello che tanti credevano un nuovo Chávez, ha cambiato di nuovo le carte in tavola, ma i partitari della sinistra si sono presto riorganizzati ed ora presentano Rafael Correa, 43 anni, ex ministro di Economia ed altro personaggio alquanto pittoresco. Correa, anti statunitense e populista, ama salire sul palco agitando una cinghia di cuoio con la quale, giocando con il proprio cognome –correa vuol dire cinghia- dice che se ne serve per fustigare il potere.
Le elezioni sono domenica prossima, il 15 ottobre e Correa è il favorito con almeno tredici punti percentuale di vantaggio su León Roldós.
Correa, durante questa campagna elettorale, ha dimostrato di non avere peli sulla lingua: ha riconosciuto l’identità rivoluzionaria delle Farc, espresso la sua stima a Chávez e attirato le simpatie del voto indigeno. Per essere eletto al primo turno, ha bisogno del 40% dei voti. Difficile da concretizzare, ma intanto continua ad attirare le simpatie dell’elettorato. L’Ecuador negli ultimi dieci anni ha quasi sempre sbagliato a fidarsi delle urne: tre presidenti sono stati cacciati da rivolte popolari.
Se Correa venisse eletto è quasi sicuro che il paese entrerebbe nell’orbita venezuelana. Chávez lo sa benissimo e, conscio di quanto avvenuto mesi fa in Perú dove i suoi commenti giocarono a sfavore di Humala, non mette bocca sulla situazione ecuadoriana. I siti dei candidati:
http://www.rafaelcorrea.com/
http://www.leonroldos.com/

Saturday, October 07, 2006

Oaxaca senza pace

Chi sono gli Zetas? Il nome non dice nulla al lettore italiano, ma in Messico è così che è conosciuta una delle più crudeli bande di sicari legati al narcotraffico. Gli Zeta sono ex militari, reclutati dai cartelli –in particolare quello del Golfo- e dai politici per eliminare gli avversari più irriducibili. Secondo fonti di polizia, sono loro ad aver scatenato la recente guerra tra bande a Cancún e nello Yucatán, così come l’ondata di sequestri di cittadini statunitensi alla frontiera di Nueva Laredo.
Ora, la loro firma è apparsa anche ad Oaxaca, la città dove si è entrati al quinto mese di conflitto tra maestri e governo locale. Uno dei membri del Consejo Central de Lucha, il sindacato che raccoglie gli insegnanti in sciopero, Jaime René Calvo, è stato assassinato secondo le modalità usate dagli Zetas. La denuncia è dell’APPO, il partito di López Obrador che tira in ballo di nuovo il governatore Ulíses Ruíz ed i suoi metodi repressivi. Da tempo –e la circostanza è stata confermata da una testimone italiana in visita alla città- Oaxaca è pattugliata durante la notte, quando la popolazione è minacciata da squadroni di incappucciati che osteggiano la protesta. Il piano di destabilizzazione avrebbe anche un nome, quello di “Plan Hierro” e avrebbe come fine quello di debilitare il movimento dei maestri.
Da giugno ci sono stati almeno una decina di morti ed il governatore non ha intenzione di cedere alle pressioni sociali. Oaxaca, città dalla forte presenza indigena, ha perso ormai le sue caratteristiche di comunità turistica ed accogliente. Si vive alla giornata e le attività degli uffici del governo locale o federale vengono interrotte dagli improvvisati picchetti degli insegnanti. La parola d’ordine dei manifestanti è una sola, ossia le dimissioni del governatore Ruíz. La risposta non si è fatta attendere: la criminalità si prenderà cura di chi protesta. Normale, nel Messico che lascia in eredità Vicente Fox. Sulle vicende di Oaxaca si può seguire Radio La Voladora:
http://lavoladora.net/

Friday, October 06, 2006

La guerra dei poveri

Botte da orbi a Huanuni, un centro minerario della regione di Oruro, terra di miserie e di sfruttamento antico. E non solo botte, ma sprangate, spari e perfino lanci di dinamite. La nuova Bolivia di Evo Morales ha un lungo cammino da percorrere, perchè ad azzuffarsi e ad ammazzarsi (nove morti il bilancio ufficioso) sono stati quegli stessi minatori che ne hanno appoggiato la scalata alla presidenza. L’oggetto della discordia è la miniera di stagno di Huanuni (la più importante del Sudamerica), per il cui controllo si sono affrontati gli appartenenti di varie cooperative con i lavoratori statali, ufficialmente tutti fino a pochi mesi fa dalla parte del presidente. Il malcontento è cominciato quando i minatori delle cooperative non hanno ottenuto quei posti che erano stati loro promessi.
Da tempo truppe dell’esercito sono di stanza a Huanuni per evitare che i due gruppi vengano in contatto. Dopo aver disturbato nei giorni scorsi le comunicazioni di frontiera con Cile ed Argentina, oggi almeno 4000 cooperativisti hanno tentato la sortita, aprendosi la strada con lanci di dinamite, con il risultato di una battaglia campale. I minatori statali sono infatti scesi a difendere il loro posto di lavoro con mogli e figli.
La vicenda è sintomatica. Ammazzarsi per lavorare in miniera la dice lunga sulla situazione della Bolivia andina.
Per saperne di più, la pagina del sindacato minerario boliviano:
http://es.geocities.com/fstmb2003/
Su Radio Pachamama le notizie in diretta sui fatti di Huanuni: http://www.radiopachamama.com

Thursday, October 05, 2006

Meno libertà di stampa

La SIP è la Sociedad Interamericana de Prensa. Ieri ha definito il suo nuovo presidente, il dominicano Rafael Molina in una riunione svoltasi in Messico. Il congresso non è stato solo per definire le nuove cariche, ma per denunciare come la situazione per i giornalisti in America sia peggiorata: nove morti in sei mesi, in un continente dove –Colombia a parte- non esistono guerre dichiarate, per non parlare degli attacchi armati alle redazioni, le aggressioni, le minacce e il disprezzo dei più elementari diritti umani. La situazione è palesemente peggiorata; sono ben dodici i Paesi che hanno ricevuto il mònito del consiglio: Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Guatemala, Ecuador, Stati Uniti, Messico, Perù, Uruguay e Venezuela sono sul banco degli accusati.
La democrazia non è un sistema politico sufficiente per preservare la libertà di stampa. Paesi come Stati Uniti o Costa Rica dispongono di una legislazione che limita i diritti di chi informa e che ne altera la obiettività. In Messico il narcotraffico e il sistema politico corrotto fanno sì che i giornalisti siano presi costantemente di mira: in questo paese si contano 52 omicidi negli ultimi venti anni. Durante l’amministrazione Fox sono state denunciate 525 aggressioni.
La Sip ha insistito poi su Cuba e Venezuela, dove è in atto una repressione costante nei confronti dei giornalisti oppositori al governo di Fidel Castro ed Hugo Chávez. Anche Evo Morales sembra intenzionato a seguire questa strada, con la recente pubblicazione di una lista nera.
Il sito della SIP:
http://www.sipiapa.org/espanol/espanol.cfm
Nota a parte, su Peacereporter ho pubblicato un approfondimento sulla situazione in Nicaragua ad un mese dalle elezioni: http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idc=0&idart=6392

Wednesday, October 04, 2006

Scherzi del Tlc

Scherzi dei Trattati di libero commercio. La Costa Rica, che si sta avviando a ratificare il Tlc con gli Stati Uniti –già firmato, ma non approvato ancora dal Congresso- rischia di perdere il suo status di paese pacifico e neutrale. Il trattato, infatti, prevede la libera proliferazione delle armi, sia leggere che pesanti, nei territori delle nazioni firmatarie. La Costa Rica è senza esercito da quasi sessanta anni, da più di venti ha firmato una risoluzione di neutralità eppure potrà trasformarsi –grazie al libero commercio- in una fiorente repubblica guerrafondaia.
Il Tlc, come dicevo sopra, non è ancora stato ratificato, eppure il presidente Árias (già premio Nobel per la pace, ricordo) ha firmato un decreto che regola il tema della fabbricazione delle armi. La faccenda già di per sè strana (non esistono aziende del settore in Costa Rica) appare improvvisamente chiara quando un deputato, Óscar López, rende noto di aver scoperto l’arcano. La statunitense Raytheon Company (
http://www.raytheon.com/) non solo ha registrato tutti i suoi “prodotti” in Costa Rica, ma ha anche comperato un terreno di cinque ettari per, molto probabilmente, costruirvi una fabbrica. L’autore di tutti gli atti notarili è stato Rubén Hernández del Valle, avvocato costituzionalista, ex ambasciatore in Italia e compagno fedele del presidente Óscar Árias.
La Raytheon è una delle industrie militari più grandi degli Stati Uniti e tra le sue “perle” annovera il Tomahawk (nella foto) e il Patriot, i missili intercettori ben conosciuti nelle guerre in Medio Oriente. Wikipedia (
http://en.wikipedia.org/wiki/Raytheon) ci informa che l’azienda vanta 80.000 impiegati e che sulla vita altrui lucra qualcosa come 22 bilioni di dollari l’anno. Sufficienti per comprarsi tutta la Costa Rica e i bei discorsi sulla pace del presidente Árias.

Tuesday, October 03, 2006

Cattivi soggetti in Nicaragua

Cosa ci fa Rumsfeld in Nicaragua? L’arrivo di un personaggio di questo tipo a Managua, a poche settimane dal voto, non può che generare degni sospetti. Ufficialmente, il Segretario della Difesa Usa è stato invitato dal presidente nicaraguense Enrique Bolaños per partecipare alla conferenza sulla sicurezza continentale; ciò nonostante richiama l’attenzione il fatto che si fermi tre giorni, molti per un’agenda piena di compromessi come la sua.
Succede però che le elezioni in Nicaragua sono alle porte (5 novembre) e, secondo i sondaggi Daniel Ortega è di nuovo il favorito. Forte del patto stimulato con l’ex padrone del Partido Liberal, il galeotto ex presidente Arnoldo Alemán, il leader sandinista è a un passo dal potercela fare e conquistare una presidenza che insegue da sedici anni. Tutto lecito fin qui, per quanto le alleanze politiche siano alquanto discutibili: se Ortega viene eletto lo sarà al termine di un processo democratico del quale solo i nicaraguensi saranno responsabili.
Per Bush e compagnia, però, la democrazia vale fino a quando premia il proprio partito ed i propri interessi. Per il resto, vale barare. Lo hanno fatto a casa propria (ma nessuno si ricorda più della Florida nel 2000?) e per quanto è possibile lo fanno all’estero. Ortega in Nicaragua sarebbe un nuovo alleato per Hugo Chávez, un fastidioso mal di testa piantato proprio nel bel mezzo della fedelissima regione centroamericana.
Meglio prevenire. L’ambasciatore a Managua, Paul Trivelli, da mesi tira la volata al candidato conservatore Montealegre ed ora arriva la visita di Rumsfeld. Il segretario della Difesa Usa è un bieco personaggio portatore di disgrazie: perchè il Centroamerica rimanga il giardino di casa degli Usa (giardino ben protetto ora che avrà il suo muro) sarebbe capace di tutto. L’Iraq insegna.

Monday, October 02, 2006

Lula e il sogno infranto

Lula stravince. Lula ce la fa appena, ma non ci sarà ballottaggio. Lula non supera il 50%. Sì, ci sarà ballottaggio.
Seguire le elezioni brasiliane in diretta è stato come assistere ad una di quelle partite dove la squadra favorita comincia alla grande e poi, piano piano, si sgonfia cammin facendo, lasciando il campo a quella sfidante, magari più debole ma ben schierata da un esperto allenatore.
Lula da Silva, pur vincendo, ha lasciato molti dubbi. Troppi scandali (l’ultimo sui fondi erogati per screditare gli avversari politici a pochi giorni dal voto) e troppo rumore hanno infine prevalso sull’umore dell’elettorato. Lula ed i suoi stanno rischiando di fare gli stessi errori dei partiti tradizionali del passato, grandi mastodonti retti dal clientelismo e dalla corruzione. In Brasile sono oramai in tanti a credere che il Partito dei Lavoratori non sia che un’altra farsa su un panorama politico desolante. Cose buone ne sono state fatte, come i programmi sociali sull’educazione ma, come mi diceva l’amico Gigi Eusebi funzionario del governo brasiliano (qui c’è un’intervista che gli feci quasi tre anni fa e che risulta interessante in retrospettiva:
http://italy.peacelink.org/latina/articles/art_2537.html)
per risanare una nazione così grande non sarebbero sufficienti nemmeno due governi consecutivi di Lula.
Alckmin ha fatto bene il suo lavoro. Doveva essere solo una comparsa ed invece ha rosicchiato punti su punti, costringendo alla fine il presidente uscente alla votazione supplementare del 29 ottobre.
I risultati ufficiali sono sul sito del Tribunale elettorale brasiliano:
http://www.justicaeleitoral.gov.br/resultado/index.html
Il blog di Geraldo Alckmin: http://geraldoalckmin.blogspot.com/

Sunday, October 01, 2006

Il monumento all'imbecillità

Ci sono monumenti che vengono ricordati per la loro solennità, altri per la loro maestosa bellezza, monumenti che ci fanno trattanere il fiato ed altri che ci emozionano. Ora avremo anche la possibilità di avere un monumento all’imbecillità. Il Senato degli Usa ha infatti approvato a larga maggioranza (80 a 19) la costruzione del muro al confine con il Messico e tutti gli articoli che riguardano la riforma sulla legge migratoria. Gli Usa si chiudono a riccio, quindi, completando via terra ciò che già da tempo stavano approntando sulle altre frontiere di aria e di mare. Insomma, la cultura della paura, del sospetto, della xenofobia e dell’aggressione fomentata dall’amministrazione Bush inanella un’altra perla.
Ora, California, Texas, Arizona e New Mexico possono assicurare 1200 chilometri delle loro frontiere con una cintura che lascerà fuori tutta la povertà che il loro governo centrale ha provocato per due secoli sulle genti e le nazioni del centro e Sudamerica.
In realtà quelli che si costruiranno saranno quattro muri. Il primo, di 500 chilometri, va da Calexico (peccato per il gruppo dallo stesso nome, simbolo invece dell’incontro tra le culture e le musiche del nord e del sud del continente) a Douglas; il secondo, di 150 chilometri blinderà la zona tra Columbus ed El Paso; il terzo, di 105 chilometri, unirà Del Rio ed Eagle Pass; l’ultimo, di 345 chilometri, completerà l’opera tra Laredo e Brownsville. Il costo del monumento all’imbecillità: 6000 milioni di dollari. Futili i commenti.
Segno dei tempi, la legge è stata approvata anche con il voto di democratici eccellenti, come Hillary Clinton.
Anche i media segnano il passo: invece di proporre un dibattito serio sul tema, il New York Times ha chiesto le opinioni di urbanisti ed architetti perchè disegnino un muro “a misura d’uomo” (!!):
http://www.mermeladadenopal.com/curioso/propuesta-para-hacer-un-nuevo-muro-fronterizo/